Tu, lo sapevi madre. Lo sapevi che non saresti mai riuscita ad amarmi fin dalla sala parto dell’ospedale di Genova. Mi chiamasti Laura, mi comprasti il corredino rosa e una carrozzina fra le più costose, ma l’illusione finì presto, come presto era finito quel tuo matrimonio sbagliato.
Certo non è impresa facile riuscire a non amare una figlia quando ti sta nel ventre per nove mesi, appiccicata a te come un dolce cancro.
E quando nascono i bambini hanno gli occhi degli angeli e ti guardano come se tu fossi Dio; ma subito si attaccano al seno per mesi, avidi come piccole piovre, svuotando quelle mele turgide e bianche di cui vai tanto fiera.
E poi ci sono quei lunghi, interminabili anni dell’infanzia e per la tua libertà che finisce in un mucchio di pannolini sporchi di cacca, nelle pappe da passare, nelle noiose passeggiate al parco per confrontare il tuo fallimento con i visi giulivi e soddisfatti delle altre madri. Per sentirti una merda insomma.
Ma come si fa a sorridere e ad essere felici quando tu la mamma proprio non la sai fare? A essere contenti quando tutti i sogni crollano e restano soltanto i mille pianti da consolare, le sbucciature delle ginocchia, i cerotti che sono finiti, le tossi e le paure del buio; e l’inquietudine dei primi giorni di scuola da calmare, e gli abissi di solitudine che solo tu puoi alleviare tenendo tutti i demoni fuori dal cerchio sacro del tuo abbraccio. Come puoi fare tutto questo quando tu stessa hai un sacro terrore di vivere?
La mia infanzia deve esserti sembrata interminabile, IN TER MI NA BI LE.
Perché tu a disposizione avevi solo i cerotti, la cartella nuova ad Ottobre, l’affettato a mezzogiorno e la minestra Knorr da buttare in pentola la sera, ma l’amore no. Non ne fosti capace. Tu ci hai provato tanto, ma l’amore per me non è mai venuto. Che ci potevi fare se i batticuori, la passione e la tenerezza li provavi solo per i tuoi amanti; se soltanto le storie dei fotoromanzi ti facevano tremare le labbra, e le emozioni più forti le sentivi quando ascoltavi le canzoni di Sanremo alla radio?
L’amore io me lo dovetti cercare altrove.
Correvo in campagna a trovare una nonna appena potevo. Pedalavo forte sulla bicicletta per arrivare subito da lei: lei che era serenità, profumo di saponetta, borotalco Felce Azzurra dopo il bagno nella tinozza.
Lei che era caffelatte caldo e piccoli pezzi di pane raffermo la mattina; castagne sul fuoco, dita veloci che mi intrecciavano i capelli e abbracci tanto stretti da farmi diventare rossa come il fuoco.
Ma ero così felice che avrebbe potuto anche stritolarmi per quello che me ne importava! E me ne stavo lì, buona-buona, sulle sue ginocchia ossute ad ascoltare le sue filastrocche in ferrarese e ad osservare meravigliata quella vena azzurra che le si gonfiava sul collo mentre cantava.
I pulcini e gli anatroccoli non sanno cosa sia una madre. Me ne resi conto la prima estate che passai a casa dalla nonna. La vecchia anatra bianca morì e io diventai, per così dire, la madre adottiva della nidiata. Davo dare da mangiare agli anatrini, li accarezzavano, parlavo con voce autoritaria quando mi disubbidivano, o li rassicuravo quando scoppiava il temporale e il vento li avvolgeva nel suo vortice. Il tuono li faceva disperdere tutt’intorno come piccoli fiori bianchi nel buio, ma io li raccoglievo in fretta tra le mani e ci nascondevamo insieme nel fienile fino a quando l’uragano non fosse passato. Li avevo battezzati tutti e sei: Pippo, Peppino, Pandemonio, e poi c’erano Messalina, Mafalda e Matilde.
La mattina tutti pronti: si partiva tutti in fila indiana per qualche nuova escursione vicino ai canali, o ad esplorare un nuovo angolo di cortile nascosto nella penombra. Pippo era quello che amavo di più: “Pippo, Pippino, vieni vieni qui che la mamma ti ha portato la pappa!”.
E lui mi veniva incontro pigolando, tenero batuffolo che mi avrebbe seguito in capo al mondo… Poi un giorno successe. Purtroppo successe, e non ci fu scampo. Sentii alla radio quella canzone di Rita Pavone che tanto mi piaceva; mi misi a ballare il Twist, girai improvvisamente sui miei tacchi e non mi accorsi di avere Pippo proprio dietro alla calcagne- lui, sempre così fedele e silenzioso! Lo uccisi in quella danza di morte. Lo calpestai sotto il macigno del mio piede destro. Assassinai mio figlio. Non emise nemmeno un pigolio, giacque sul selciato senza alcun segno di lotta, schiacciato dall’enorme peso materno e guardandomi fisso senza capire. Lo raccolsi gridando d’orrore e di rimorso e lo portai di corsa sul mio letto. Li piansi disperata le lacrime più sofferte della mia vita.
Tu lo sapevi madre.
Sapevi che non sarei mai stata bella come te. Forse non per quello che non riusciti mai ad amarmi.
Io lo intuivo quando ti guardavo con adorazione mentre ti truccavi in silenzio, riflessa nello specchio argentato della tua camera da letto e circondata dalle tue ciprie rosa, dai tuoi profumi alla violetta, dagli orecchini a goccia che facevano risaltare i tuoi occhi verdi. Passavi il rossetto sulle tue labbra piene; sfumavi con la matita l’arco perfetto delle tue sopracciglia, spazzolavi con cura i riccioli della tua ultima permanente.
Io ti guardavo riflessa nello specchio, ma lì riflesso vedevo anche il mio viso lungo, giallognolo, dagli occhi un po’ sporgenti e già cerchiati di viola. Avevo le labbra sottili e il mento sfuggente: “specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?” Ma come avresti potuto amarmi, madre, tu che eri la dea della bellezza!
E poi crebbi, e mi innamorai, e rimasi incinta e lui mi lasciò.
Sembra la trama di un tuo fotoromanzo. A
vevo diciott’anni e mi accompagnasti all’estero per abortire.
Te lo ricordi madre? Soffrivo e piangevo e all’improvviso vidi che tu soffrivi e piangevi con me, morendo un poco del mio stesso dolore.
La sorpresa fu enorme, troppo grande. Troppo.
Forse tu mi avevi davvero desiderata, ma avevi semplicemente scoperto che non eri nata per essere madre. Tutto qui. Improvvisamente capii che nonostante tutto mi amavi.
Solo che era troppo tardi. Troppo tardi per cercare di volerci ancora bene.
Una volta lasciata Genova non risposi mai alle tue telefonate, né alle tue lettere. Nemmeno ai tuoi bigliettini di Natale. Poi seppi che stavi per morire in una corsia dello stesso ospedale dove mi avevi partorita.
I tuoi amanti se n’erano andati, uno dopo l’altro, e le tue amiche chiacchierine avevano ben altro da fare che sedersi al tuo fianco per aspettare la morte. Non mi chiamasti. Non mi chiedesti aiuto. No, troppo orgogliosa; troppo altera anche nel momento della tua fine.
Venni a trovarti un sabato pomeriggio con in tasca il biglietto di ritorno per Milano e decisa solo a compiere il mio dovere. Stringevo tra le dita il contratto già firmato con un’infermiera diplomata di grande esperienza, certa che avrebbe potuta accudire perfettamente a tutti i tuoi bisogni.
Ma poi ti vidi: fragile e rugosa, senza più ombra della tua passata bellezza, senza nemmeno più i tuoi capelli. Non eri che un piccolo torsolo di mela corroso orribilmente dalla malattia e mi mancò coraggio.
Di colpo compresi che il sangue è più forte dell’odio, più forte dell’amore, del rancore, di tutti i nostri sbagli e di tutta la nostra incomprensione. Più forte di tutto.
Il contratto per l’infermiera si accartocciò da solo nel mio pugno chiuso. Mi sedetti al tuo fianco e pregai Dio perché tu non ti svegliassi ancora, perché volevo amarti in silenzio, nel sole basso d’autunno e per qualche minuto saperti solo mia.
Respiravo piano, con un sibilo di fatica che ti faceva alzare e abbassare il petto scarno da sotto le lenzuola. Inspiegabilmente mi rividi all’improvviso bambina, mentre piangevo straziata osservando Pippo che moriva sulle lenzuola bianche del mio letto.
In quel momento io diventai tua madre, e tu fosti il figlio che non avevo mai avuto.
Io la madre che avevo sempre cercato e tu la figlia che ero stata, con tutta la solitudine e la disperazione di cui è capace l’infanzia.
E adesso sei morta mamma, e io ti parlo nella penombra, bisbigliandoti parole d’odio e d’amore che non hanno più confini chiari, né risposte sicure. Che non hanno più nessun senso adesso che te ne sei andata.
Ti parlo e intanto inciprio il tuo viso grigio; bagno con due gocce di profumo l’area di pelle sottile dietro ai tuoi lobi e sopra i tuoi polsi; coloro di rosso carmine le tue labbra avvizzite; segno con la matita marrone l’arco non più perfetto delle tue sopracciglia. E ti parlo e piango piano su queste tue mani ossute, sul tuo torace spento, sulla tua camicia inamidata che è quasi vuota. Ma è l’ora. Tutti ti aspettano nell’altra stanza.
La tua ultima festa sta per cominciare. E allora io ti stringo forte la mano, passo lentamente una carezza sui pochi capelli che la chemioterapia ti ha risparmiato, bacio infinitamente la tua fronte chiara e la tua bocca fredda.
E cosi sia.
Monologo a una madre
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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
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