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2 anni ago · · 0 comments

La rana bollita di Noam Chomsky

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana.
Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano.

Presto diventa tiepida.
La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare.

La temperatura sale.
Adesso l’acqua è calda.
Un po’ più di quanto la rana non apprezzi.
Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.

L’acqua adesso è davvero troppo calda.
La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire.
Allora sopporta e non fa nulla.

Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

Tratto dal libro “Media e Potere” di Noam Chomsky

La rana bollita

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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
Formatore e Supervisore: in presenza e online – SCUOLA DI PSICOLOGIA lo psicologo è colui che aiuta l’altro a curarsi

2 anni ago · · 0 comments

I due lupi – leggenda Cherokee

Un giorno, un nonno e suo nipote si fermano a guardare il tramontare del sole.
In quel mentre, il bimbo chiede al nonno, un saggio capo Cherokee : “Nonno, perché gli uomini combattono?”
Il vecchio, con voce calma, gli risponde: ”Ogni uomo, prima o poi, è chiamato a farlo. Per ogni uomo c’è sempre una battaglia che aspetta di essere combattuta, che sia da vincere o da perdere. Perché lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi.”
“Quali lupi nonno?”
“Quelli che ogni uomo porta dentro di sé.” I
l bambino non riusciva a capire.
Attese che il nonno rompesse l’attimo di silenzio che aveva lasciato cadere tra loro, forse per accendere la sua curiosità.
Infine il vecchio che aveva dentro di sé la saggezza del tempo riprese con il suo tono calmo: “Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo e vive di odio, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, menzogna ed egoismo.” Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di capire quello che aveva appena detto.
“E l’altro?”
“L’altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità, compassione, umiltà e fede.”
Il bambino rimase a pensare un istante a quello che il nonno gli aveva appena raccontato.
Poi diede voce alla sua curiosità ed al suo pensiero: “E quale lupo vince?”
Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo e rispose con occhi puliti: “Quello che nutri di più.”

I due lupi – leggenda Cherokee

 

L’erba del vicino. Francesca Di Donato

3 anni ago · · 0 comments

L’erba del vicino. Francesca Di Donato

C’era una volta un giardiniere con una dimora completa di giardino, un giardino che creò con le sue mani.

Un giorno scoprì che il vicino aveva anche egli un giardino sul retro, ma lui non era giardiniere: una parte del giardino era curatissima, anche esteticamente molto attraente, un’altra -l’orticello- era un pochino più sofferente; eppure, nonostante ciò, alcune persone erano attratte da quei fiori.

Allora il giardiniere iniziò a risentirsi: “ma come?! Devono guardare solo il mio di giardino, perché io sono giardiniere, non un fanfarone che si improvvisa! Guarda quell’orto come è tenuto male”.

Eppure le persone, catturate, dal giardino, all’orto davano poca importanza; dopotutto, loro non erano interessate all’orto, ma ai fiori e il signore era anche così gentile da dare loro delle dritte su come avere un giardino come il suo.

Il vicino ammise di non essere un esperto, ma aveva comunque piacere a condividere la sua esperienza con chi gliene chiedesse contezza.

Al giardiniere questo non andava proprio giù e, allora, iniziò non solo a elencare al vicino tutto quello che sbagliava e che non sapeva fare visto che non era giardiniere anche lui, ma iniziò anche a disprezzare il suo lavoro con ogni passante, così che non lo ascoltassero più.

Perfino si lamentò con il Sindaco, di come quel giardino avrebbe fatto danni all’immagine della città e, quindi, bisognava impedire a questi ciarlatani di prendere il sopravvento.

Altri giardinieri erano d’accordo con lui e questo lo faceva sentire ancora più forte.

Investì così molte energie per sabotare il suo vicino, ma mai pensò, in quel frangente, a investire le stesse nella cura del suo terreno, che nel frattempo ne risentì, appassendo.

A te la morale della favola

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Francesca Di Donato – Psicologa

3 anni ago · · 0 comments

Amarilla – appunti di un viaggio a sei zampe di Emanuele Grandi

Se hai paura di avermi dato poche carezze,

sappi che non ne ho scordata nemmeno una.

Se sei pentita di avermi sgridato anche solo una volta, sappi che io nemmeno me la ricordo.

Se pensi di avermi lasciato troppo tempo da sola, sappi che io ti ho sempre aspettato.

Se temi di avermi dedicato poco tempo, sappi che io, anche di quel poco, ne ho goduto ogni istante.

Se credi di aver giocato poco con me, sappi che io non ho mai contato le volte in cui mi hai lanciato la pallina.

Se pensi che io abbia dimenticato il tuo profumo, sappi che anche adesso lo sto annusando nel vento.

Se tu volessi rinascere in un’altra vita, sappi che io vorrei essere la tua cagnolina anche in quella.

Se sei convinta di avere qualche difetto, sappi che per me tu sei stata la perfezione.

Se credi che l’ amore possa avere una fine, sappi che nel mio cuore il posto per l’ amore è infinito.

Se pensi di nutrire dei rimpianti verso me, sappi che io non cambierei un solo secondo della vita che ho trascorso con te.

Se credi che io non senta più la tua voce quando mi chiami, basta che tu affidi alla brezza della sera il compito di portarmi le tue parole.

Se pensi che io possa scordare il tuo viso, sappi che avrei voluto vivere solamente per godere di un tuo sguardo.

Se credi che avrei potuto amare qualcuno più di te, sappi che io ti ho amato più di me stessa.

Se pensi che mi piacerebbe un morbido divano, sappi che con te avrei dormito anche sui sassi.

Se credi che io volessi più di ciò che mi hai dato, sappi che io mi sono sempre sentita la cagnolina più felice e ricca del mondo.

Se a volte ti sei sentita sola, sappi che io non ho mai lasciato il mio posto accanto a te.

Se pensi che la mia vita sia stata breve, sappi che io non avrei voluto vivere nemmeno un minuto in più se non lo avessi passato al tuo fianco.

Se temi che io non sia più vicino a te, sappi che appena chiuderai gli occhi io mi addormenterò al tuo fianco.

Se pensi di non aver fatto la scelta giusta, sappi che io mi sono sempre fidata di te.

Sempre.

Se sogni un giorno di potermi rivedere, sappi che sarò lì ad aspettarti.

Come ho sempre fatto.

 

Amarilla – appunti di un viaggio a sei zampe di Emanuele Grandi

3 anni ago · · 0 comments

Una poesia anche per te di Elisa

Forse non sai quel che darei
Perché tu sia felice
Piangi lacrime di aria
Lacrime invisibili
Che solamente gli angeli
San portar via
Ma cambierà stagione
Ci saranno nuove rose
E ci sarà
Dentro te e al di là
Dell’orizzonte
Una piccola poesia
Ci sarà
E forse esiste già al di là
Dell’orizzonte
Una poesia anche per te
Vorrei rinascere per te
E ricominciare insieme come se
Non sentissi più dolore
Ma tu hai tessuto sogni di cristallo
Troppo coraggiosi e fragili
Per morire adesso
Solo per un rimpianto
Ci sarà
Dentro e te e al di là
Dell’orizzonte
Una piccola poesia
Ci sarà
Dentro e te e al di là
Dell’orizzonte
Una poesia anche per te
Perdona e dimenticherai
Per quanto possa fare male in fondo sai
Che sei ancora qui
E dare tutto e dare tanto
Quanto il tempo in cui
Il tuo segno rimarrà
Questo nodo lo sciolga il sole
Come sa fare con la neve
Ci sarà
Dentro te e al di là
Dell’orizzonte
Una piccola poesia
Ci sarà
E forse esiste già al di là
Dell’orizzonte
Una poesia anche per te
Anche per te
Solo per te
Per te

Una poesia anche per te di Elisa

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Francesca Di Donato – Psicologa
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3 anni ago · · 0 comments

Quando la casa dei nonni si chiude di Antonio Cotardo

Uno dei momenti più tristi della nostra vita é quando la porta della casa dei nonni si chiude per sempre.
Una volta chiusa quella porta non ci saranno più i pomeriggi felici con zii, cugini, nipoti, genitori fratelli e sorelle.

Ve lo ricordate? Non era necessario andare al ristorante la domenica. Si andava a casa dei nonni.
A Natale la nonna bucava l’ozono con le sue fritture mentre il nonno si dedicava all’arrosto facendo puntualmente bruciare la canna fumaria. La tavola era lunghissima e veniva apparecchiata nella stanza più grande.

Adesso la casa è chiusa ed è rimasta soltanto la polvere. Un cartello vendesi. Nessuno la vuole quella casa. È vecchia. Va ristrutturata. Costa troppo.
Cazzo ne sapete di quanto vale la casa dei nonni. La casa dei nonni non ha un valore.

E così passano gli anni. Non ci sono più regali da scartare. Frittate da mangiare. Verdure da pulire.

Quando la casa dei nonni si chiude ci ritroviamo adulti senza capire quando abbiamo smesso di essere bambini.

Certo per i nonni saremo sempre piccoli e indifesi. Sempre.

I nonni avevano sempre il caffè pronto. La pasta. Il vino. Le caramelle..
Poi finisce tutto. Non ci sono più le canzoni. Non si fa più la pasta fatta in casa….. Siete andati via troppo presto porca miseria.

Io volevo fare la salsa ancora una volta. Il mirto. Le chiacchiere. E il liquore all’alloro.
Io volevo ancora accatastare la legna con te nonno, anzi grazie per avermelo insegnato. E grazie per gli insegnamenti sulla vita. E sulla campagna. E sul giardinaggio.
Ora quando passo guardo quella casa e mi viene sempre l’abitudine di parcheggiare. E di buttare giù il campanello. E di sentire la nonna gridare che porco giuda non sono modi quelli. Scusa nonna. Non suonerò più il campanello.
Al massimo quando mi capiterà di pensarvi di nuovo, come ora, canterò una canzone. Quella preferita dal nonno. Un amore così grande. ❤️

Quando la casa dei nonni si chiude

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Francesca Di Donato – Psicologa
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4 anni ago · · 0 comments

Il sogno di Sokei

Una porta socchiusa lasciava intravedere la figura di Sokei, in ginocchio. Davanti allo sguardo attento dell’allievo di Chojiro, uno dei migliori ceramisti di Kyoto, erano disposte trenta palline di creta. Sokei aveva trascorso tutta la mattina in silenzio, prendendole tra le mani e riponendole di nuovo sul tavolo. Aveva analizzato tutte le palline, una per volta. All’improvviso, abbozzò un sorriso. Finalmente aveva trovato quella giusta! Sokei era una persona intelligente e caparbia. Scegliere la pallina di creta più adeguata era per lui di fondamentale importanza, dal momento che ognuna è diversa al tatto e ispira al maestro una particolare sensazione. La differenza tra l’ordinario e lo straordinario risiede nella minuziosità del dettaglio, e Sokei era deciso a creare qualcosa di unico.

Fece una riverenza con le mani giunte sul petto alla pallina prescelta e si dispose a raccoglierla con delicatezza, assaporando tutte le sensazioni associate a quel momento tanto speciale. Senti la consistenza umida e leggermente fredda del materiale. La sua anima entrò in contatto con quella della creta, con la sua storia e con il viaggio che aveva compiuto per arrivare tra le sue mani.

Sokei aveva impiegato giorni interi a cercare il materiale che più si confacesse al suo lavoro. I suoi passi l’avevano condotto a boschi, fiumi, e persino alle rive del lago Biwa. Lì aveva chiuso gli occhi, mentre affondava le mani nella terra per potersi connettere al meglio con la sua essenza. In quel momento, nel suo laboratorio, poteva ricordare uno a uno tutti i sogni riposti nella sua scelta e si sentì fortunato e pieno di gratitudine.

Si sedette su un angolo vicino alla finestra, nel luogo in cui aveva passato tante ore a imparare. I giovani oggi hanno fretta di apprendere e, se non ci riescono al primo colpo, si spazientiscono, si demotivano e lasciano perdere. Non sanno che imparare e consolidare ciò che si è appreso è una cosa che richiede tempo e un’attitudine recettiva e curiosa. Tuttavia, Sokei non era un giovane come gli altri, aveva la pazienza degli anziani e il desiderio di conoscenza di un bambino. La sua mente era un turbine di pensieri, i suoi occhi illuminati dalla speranza e il cuore batteva frenetico per l’attesa. Sapeva di vivere un momento molto speciale, ma sapeva anche di dover mantenere il corpo, la mente e l’anima.

Chojiro lo stava guardando da un altro angolo del laboratorio:” I giovani sono così pieni di vita”, pensò. Tuttavia Sokei era diverso. Aveva una sensibilità particolare e una straordinaria forza emozionale. Chojiro sapeva di avere di fronte a sé il suo successore, un giovane con la pace interiori di chi ha già vissuto la sua vita e l’energia di chi ce l’ha ancora davanti.

Sokei toccava la creta ad occhi chiusi, l’attenzione volta interamente a impastarla, sentendo le dita fondersi con lei, con la terra, la natura e l’arte. In quel momento ogni cosa gli sembrava possibile, perché ognuna delle infinite forme che abitavano la creta stava aspettando di connettersi con le mani del ceramista. Lui le immaginava e le sentiva tutte, una per una. Aveva cominciato a lavorare la creta per farne una ciotola, focalizzando la sua mente soltanto nel qui e ora, perché non si fanno mai bene due cose nello stesso momento. Sapeva che, se davvero voleva ottenere un risultato eccellente, non poteva concedersi alcuna distrazione. Era così concentrato che perse la nozione del tempo e dello spazio. L’universo intero era nelle sue mani. Esistevano solo lui e la sua ciotola. Sapeva che la bellezza sta nella semplicità e che lo straordinario non richiede particolari orpelli, e, mosso da questo pensiero, decorò la sua opera con sobrietà. Il risultato fu una ciotola austera. L’essenziale è bello. Il rustico è ispirazione. L’autenticità è forza. Per Sokei, l’opera a cui stava lavorando era una proiezione della sua anima, della sua vita, della creatività e di una mente ormai libera. Gli ornamenti della ciotola tracciavano un percorso per la storia delle sue mani, la spiritualità della sua esistenza e il suo amore per la natura.

Chojro preparò il forno per il momento chiave del processo il più complesso, ma anche il più bello. Sokei infilò la ciotola nel forno. A poco a poco, quella iniziò a cambiare colore per l’effetto della temperatura e, quando divenne bianca, la afferrò saldamente con delle pinze di ferro e la depositò in un recipiente pieno di trucioli di legno. Il fumo e le fiamme abbracciarono la ciotola di Sokei, fondendosi in una cosa sola, diventando una nuova entità. Anche le decorazioni volevano far parte di quella danza trasformatrice, con il loro delicato caleidoscopio di colori e forme. Sokei contemplava il processo con l’euforia trattenuta di chi è testimone diretto della nascita di qualcosa di unico. Riusciva a stento a trattenere l’emozione. Infine giunse il momento di estrarre la ciotola. Fuoco, terra e aria avevano disegnato forme aleatorie e capricciose, donandole luci e ombre. Dopo tanto tempo, dedizione e pazienza, Sokei aveva finalmente davanti a sé il risultato del suo lavoro e del suo amore. Ed è così bello che non potè evitare di sussultare. Un brivido gli scese lungo la schiena e sentii sul collo il fiato freddo di Buruburu, il fantasma della paura. Un tremore pervase il suo corpo, comprese le mani, tanto che la bellissima ciotola calda cadde a terra e si ruppe in sei pezzi. Sokei mise da parte le pinze di ferro e si inginocchiò accanto ai cocci, in silenzio, con un’espressione di incredulità sul volto. Le mani continuavano a tremare, dagli occhi cominciarono a sgorgare lacrime. Che vita effimera aveva avuto la sua creazione. Finché una mano non gli si posò con delicatezza sulla spalla.

“Non piangere, Sokei” gli disse Chojro.

“Ma è la mia vita. Come posso non piangere?” rispose l’allievo.

“Fai bene a dedicare tutta la tua vita e la tua passione alla tua opera, però la ceramica è bella e fragile, proprio come la vita. La ceramica e la vita possono rompersi in mille pezzi, ma non per questo dobbiamo smettere di vivere intensamente, di lavorare con impegno o di riporre nella nostra esistenza le nostre speranze. Quello che dobbiamo fare non è evitare di vivere, ma imparare a ricomporci dopo le avversità. Raccogli i cocci, Sokei, è arrivato il momento di aggiustare le tue illusioni. Ciò che è rotto può essere ricomposto e, quando lo farai, non cercare di nascondere la sua apparente fragilità giacché si è trasformata ora in una forza manifesta. Caro Sokei, è arrivato il momento che ti spieghi una nuova tecnica, l’arte ancestrale del Kintsukuroi, perché tu possa ricomporre la tua vita, le tue illusioni e il tuo lavoro. Vai a prendere l’oro che custodisco nella cassetta sull’ultimo scaffale.”

Il sogno di Sokei

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Francesca Di Donato – Psicologa
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Monologo per una madre   

4 anni ago · · 0 comments

Monologo per una madre  

Tu, lo sapevi madre. Lo sapevi che non saresti mai riuscita ad amarmi fin dalla sala parto dell’ospedale di Genova. Mi chiamasti Laura, mi comprasti il corredino rosa e una carrozzina fra le più costose, ma l’illusione finì presto, come presto era finito quel tuo matrimonio sbagliato. 

Certo non è impresa facile riuscire a non amare una figlia quando ti sta nel ventre per nove mesi, appiccicata a te come un dolce cancro.

 

E quando nascono i bambini hanno gli occhi degli angeli e ti guardano come se tu fossi Dio; ma subito si attaccano al seno per mesi, avidi come piccole piovre, svuotando quelle mele turgide e bianche di cui vai tanto fiera.

E poi ci sono quei lunghi, interminabili anni dell’infanzia e per la tua libertà che finisce in un mucchio di pannolini sporchi di cacca, nelle pappe da passare, nelle noiose passeggiate al parco per confrontare il tuo fallimento con i visi giulivi e soddisfatti delle altre madri.  Per sentirti una merda insomma.

 

Ma come si fa a sorridere e ad essere felici quando tu la mamma proprio non la sai fare? A essere contenti quando tutti i sogni crollano e restano soltanto i mille pianti da consolare, le sbucciature delle ginocchia, i cerotti che sono finiti, le tossi e le paure del buio; e l’inquietudine dei primi giorni di scuola da calmare, e gli abissi di solitudine che solo tu puoi alleviare tenendo tutti i demoni fuori dal cerchio sacro del tuo abbraccio. Come puoi fare tutto questo quando tu stessa hai un sacro terrore di vivere?

 

La mia infanzia deve esserti sembrata interminabile, IN TER MI NA BI LE.

Perché tu a disposizione avevi solo i cerotti, la cartella nuova ad Ottobre, l’affettato a mezzogiorno e la minestra Knorr da buttare in pentola la sera, ma l’amore no. Non ne fosti capace. Tu ci hai provato tanto, ma l’amore per me non è mai venuto. Che ci potevi fare se i batticuori, la passione e la tenerezza li provavi solo per i tuoi amanti; se soltanto le storie dei fotoromanzi ti facevano tremare le labbra, e le emozioni più forti le sentivi quando ascoltavi le canzoni di Sanremo alla radio? 

 

L’amore io me lo dovetti cercare altrove.

Correvo in campagna a trovare una nonna appena potevo. Pedalavo forte sulla bicicletta per arrivare subito da lei: lei che era serenità, profumo di saponetta, borotalco Felce Azzurra dopo il bagno nella tinozza.

Lei che era caffelatte caldo e piccoli pezzi di pane raffermo la mattina; castagne sul fuoco, dita veloci che mi intrecciavano i capelli e abbracci tanto stretti da farmi diventare rossa come il fuoco.

Ma ero così felice che avrebbe potuto anche stritolarmi per quello che me ne importava! E me ne stavo lì, buona-buona, sulle sue ginocchia ossute ad ascoltare le sue filastrocche in ferrarese e ad osservare meravigliata quella vena azzurra che le si gonfiava sul collo mentre cantava. 

 

I pulcini e gli anatroccoli non sanno cosa sia una madre. Me ne resi conto la prima estate che passai a casa dalla nonna. La vecchia anatra bianca morì e io diventai, per così dire, la madre adottiva della nidiata. Davo dare da mangiare agli anatrini, li accarezzavano, parlavo con voce autoritaria quando mi disubbidivano, o li rassicuravo quando scoppiava il temporale e il vento li avvolgeva nel suo vortice. Il tuono li faceva disperdere tutt’intorno come piccoli fiori bianchi nel buio, ma io li raccoglievo in fretta tra le mani e ci nascondevamo insieme nel fienile fino a quando l’uragano non fosse passato. Li avevo battezzati tutti e sei: Pippo, Peppino, Pandemonio, e poi c’erano Messalina, Mafalda e Matilde. 

 

La mattina tutti pronti: si partiva tutti in fila indiana per qualche nuova escursione vicino ai canali, o ad esplorare un nuovo angolo di cortile nascosto nella penombra. Pippo era quello che amavo di più: “Pippo, Pippino, vieni vieni qui che la mamma ti ha portato la pappa!”.

 

E lui mi veniva incontro pigolando, tenero batuffolo che mi avrebbe seguito in capo al mondo… Poi un giorno successe. Purtroppo successe, e non ci fu scampo. Sentii alla radio quella canzone di Rita Pavone che tanto mi piaceva; mi misi a ballare il Twist, girai improvvisamente sui miei tacchi e non mi accorsi di avere Pippo proprio dietro alla calcagne- lui, sempre così fedele e silenzioso! Lo uccisi in quella danza di morte. Lo calpestai sotto il macigno del mio piede destro. Assassinai mio figlio. Non emise nemmeno un pigolio, giacque sul selciato senza alcun segno di lotta, schiacciato dall’enorme peso materno e guardandomi fisso senza capire. Lo raccolsi gridando d’orrore e di rimorso e lo portai di corsa sul mio letto. Li piansi disperata le lacrime più sofferte della mia vita. 

 

Tu lo sapevi madre.

 

Sapevi che non sarei mai stata bella come te. Forse non per quello che non riusciti mai ad amarmi.

Io lo intuivo quando ti guardavo con adorazione mentre ti truccavi in silenzio, riflessa nello specchio argentato della tua camera da letto e circondata dalle tue ciprie rosa, dai tuoi profumi alla violetta, dagli orecchini a goccia che facevano risaltare i tuoi occhi verdi. Passavi il rossetto sulle tue labbra piene; sfumavi con la matita l’arco perfetto delle tue sopracciglia, spazzolavi con cura i riccioli della tua ultima permanente.

Io ti guardavo riflessa nello specchio, ma lì riflesso vedevo anche il mio viso lungo, giallognolo, dagli occhi un po’ sporgenti e già cerchiati di viola. Avevo le labbra sottili e il mento sfuggente: “specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?” Ma come avresti potuto amarmi, madre, tu che eri la dea della bellezza! 

 

E poi crebbi, e mi innamorai, e rimasi incinta e lui mi lasciò.

Sembra la trama di un tuo fotoromanzo. A

vevo diciott’anni e mi accompagnasti all’estero per abortire.

Te lo ricordi madre? Soffrivo e piangevo e all’improvviso vidi che tu soffrivi e piangevi con me, morendo un poco del mio stesso dolore.

La sorpresa fu enorme, troppo grande. Troppo.

Forse tu mi avevi davvero desiderata, ma avevi semplicemente scoperto che non eri nata per essere madre. Tutto qui. Improvvisamente capii che nonostante tutto mi amavi.

Solo che era troppo tardi. Troppo tardi per cercare di volerci ancora bene. 

 

Una volta lasciata Genova non risposi mai alle tue telefonate, né alle tue lettere. Nemmeno ai tuoi bigliettini di Natale. Poi seppi che stavi per morire in una corsia dello stesso ospedale dove mi avevi partorita.

I tuoi amanti se n’erano andati, uno dopo l’altro, e le tue amiche chiacchierine avevano ben altro da fare che sedersi al tuo fianco per aspettare la morte. Non mi chiamasti. Non mi chiedesti aiuto. No, troppo orgogliosa; troppo altera anche nel momento della tua fine. 

 

Venni a trovarti un sabato pomeriggio con in tasca il biglietto di ritorno per Milano e decisa solo a compiere il mio dovere. Stringevo tra le dita il contratto già firmato con un’infermiera diplomata di grande esperienza, certa che avrebbe potuta accudire perfettamente a tutti i tuoi bisogni.

Ma poi ti vidi: fragile e rugosa, senza più ombra della tua passata bellezza, senza nemmeno più i tuoi capelli. Non eri che un piccolo torsolo di mela corroso orribilmente dalla malattia e mi mancò coraggio. 

 

Di colpo compresi che il sangue è più forte dell’odio, più forte dell’amore, del rancore, di tutti i nostri sbagli e di tutta la nostra incomprensione.  Più forte di tutto.

Il contratto per l’infermiera si accartocciò da solo nel mio pugno chiuso. Mi sedetti al tuo fianco e pregai Dio perché tu non ti svegliassi ancora, perché volevo amarti in silenzio, nel sole basso d’autunno e per qualche minuto saperti solo mia.

Respiravo piano, con un sibilo di fatica che ti faceva alzare e abbassare il petto scarno da sotto le lenzuola. Inspiegabilmente mi rividi all’improvviso bambina, mentre piangevo straziata osservando Pippo che moriva sulle lenzuola bianche del mio letto.

In quel momento io diventai tua madre, e tu fosti il figlio che non avevo mai avuto.

Io la madre che avevo sempre cercato e tu la figlia che ero stata, con tutta la solitudine e la disperazione di cui è capace l’infanzia. 

 

E adesso sei morta mamma, e io ti parlo nella penombra, bisbigliandoti parole d’odio e d’amore che non hanno più confini chiari, né risposte sicure. Che non hanno più nessun senso adesso che te ne sei andata.

Ti parlo e intanto inciprio il tuo viso grigio; bagno con due gocce di profumo l’area di pelle sottile dietro ai tuoi lobi e sopra i tuoi polsi; coloro di rosso carmine le tue labbra avvizzite; segno con la matita marrone l’arco non più perfetto delle tue sopracciglia. E ti parlo e piango piano su queste tue mani ossute, sul tuo torace spento, sulla tua camicia inamidata che è quasi vuota. Ma è l’ora. Tutti ti aspettano nell’altra stanza.

 

La tua ultima festa sta per cominciare. E allora io ti stringo forte la mano, passo lentamente una carezza sui pochi capelli che la chemioterapia ti ha risparmiato, bacio infinitamente la tua fronte chiara e la tua bocca fredda.

E cosi sia.

Monologo a una madre

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Francesca Di Donato – Psicologa
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4 anni ago · · 0 comments

Dalai Lama

  • “Tieni sempre conto del fatto che un grande amore e dei grandi risultati comportano un grande rischio”. Qualsiasi cosa che valga la pena vivere comporta un grande rischio, semplicemente perché, come ogni cosa importante, richiede un investimento di fiducia e di energia. Sii coraggioso, dimostra al tuo sogno e al tuo cuore che lo desideri davvero.
  • “Quando perdi non perdere la lezione.” Non esiste fallimento se sai imparare dai i tuoi errori e dai tuoi sbagli. Quando una relazione finisce e senti di “aver fallito”, quando il lavoro non va come vorresti e senti di “aver fallito”, quando non riesci a recuperare una sensazione, a chiarire un litigio e a riuscire in quella cosa così importante e senti di “aver fallito” ricordati che non è finita lì, non hai fallito, hai solo prodotto un risultato dal quale hai un’occasione di imparare: sono lezioni, semplici feedback nel lungo viaggio della vita.
  • Segui sempre le 3 “R”: Rispetto per gli altri, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.” Sii te stesso autenticamente e rispetta i tuoi valori, trova il modo visto che ce n’è sempre uno, per unire il rispetto per te stesso al rispetto e alla comprensione dell’altro, mettiti nei tuoi panni e chiediti qual è il modo migliore per rispettare l’unicità di quella persona. E, infine, qualsiasi cosa tu decida di fare non dimenticare che la responsabilità non è mail della situazione, del posto in cui vivi, degli altri o della società, sono sempre le TUE azioni e scelte a fare la differenza.
  • “Quando ti accorgi di aver commesso un errore, fai immediatamente qualcosa per correggerlo” Notalo, ammettilo a te stesso, non ti punire e allo stesso tempo non ignorarlo. Pensa al modo migliore per correggerti e per dare una nuova direzione alla situazione. L’errore è il tuo punto di partenza. Tocca a te scegliere dove andare ora e come.
  • “Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciare fuori i tuoi valori.” Ovunque scegli di andare, con chiunque tu voglia condividere il tuo viaggio tieni sempre la bussola sui tuoi valori cardine. Forse la direzione non è definitiva, forse non sai come andrà la tua relazione o non sai se quello sia il lavoro giusto per te, ma non importa. Continua a vivere secondo i tuoi valori e aggiusta la rotta man mano che procedi nel tuo viaggio. Accogli gli imprevisti, le novità, le fini e i nuovi inizi, tutto questo fa parte della vita e opporsi al cambiamento è una battaglia persa dal principio. La vita è cambiamento. Scegli di abbracciarlo.
  • “Impara bene le regole, in modo da infrangerle nel modo giusto”. Informati, approfondisci, scopri secondo quali regola sta giocando la società e il mondo in cui vivi e trova le tue regole. Va bene sia che siano le stesse sia che siano diverse. Sapere è potere. Avere bene chiaro “come gira il mondo” ti permette di infrangere le regole che non sono allineate coi tuoi principi profondi, senza sacrificare il tuo vivere con gli altri e i principi di sana convivenza. Si lega a “ama e fa ciò che vuoi”.
  • “Sii gentile con la Terra.” è la tua casa. Bastano piccoli gesti.
  • “Almeno una volta l’anno, vai in un posto dove non sei mai stato.” Esci dalla tua zona di confort. Apri la mente e vai alla scoperta di nuovi mondi. Il viaggio, qualsiasi viaggio, è una nuova esperienza se affrontata con entusiasmo e l’apertura alla novità e al diverso ti regalo nuove prospettive sulla via e su te stesso, occhi nuovi con cui guardare il mondo e la consapevolezza che esistono infinite possibilità da vivere e scoprire.
  • “Il miglior rapporto è quello in cui ci si ama di più di quanto si abbia bisogno l’uno dell’altro.” Per quanto suoni male, sarebbe egoista da parte nostra costruire e nutrire un rapporto, solo perché ci sentiamo infelici, bisognosi e insicuri senza di esso. Rendere la tua vita meravigliosa è il dono più grande che puoi fare a chi ami. Se sai essere felice da solo, sei pronto per amare davvero.
  • “Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere.” Sii libero e concedi la libertà alle persone accanto a te. Quando nutri le relazioni di gentilezza e rispetto e dedichi tempo e amore alle persone intorno a te, hai appena regalato ali e radici, nonché un ottimo motivo per rimanere accanto.
  • “Ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno dei due si chiama ieri e l’altro si chiama domani, perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere.” Hai presente quelle parole che hai paura di dire? Dille adesso! Hai presente tutte le cose meravigliose che hai in questo istante nella vita? Godile e apprezzale!
  • “Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo.” Guarda il cielo. Senti il calore del sole sulla pelle o semplicemente osserva le nuvole passare. Respira profondamente, lascia che l’aria riempia i tuoi polmoni e ascolta il battito del tuo cuore. Non è forse abbastanza per cominciare la giornata col sorriso e scegliere di essere la migliore versione di te stesso? C’è così tanto al mondo per cui essere grati. Solo tu puoi scegliere con che occhi guardare il cielo che ti avvolge.

Perché come dice il Dalai Lama: “Le decisioni sono un modo per definire sè stessi. Sono il modo per dare vita e significato ai sogni. Sono il modo per farci diventare ciò che vogliamo.”

Dalai lama
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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
Formatore e Supervisore: in presenza e online

 

Famiglia. Tratto da una storia vera. Francesca Di Donato

4 anni ago · · 0 comments

Famiglia. Tratto da una storia vera. Francesca Di Donato

Roma. Metropolitana.

Tragitto stazione Termini – Eur.

Entro, trovo posto a sedere. Le fermate sono molte, quindi va più che bene sapere di farmi il tragitto seduta. Ne approfitto per rilassarmi un po’.

A circa quattro fermate dalla mia tappa di arrivo, accade qualcosa di improvviso, un trambusto fatto i persone che si muovono e qualcuno che urla, la persona accanto a me si alza veloce, e un uomo alto, sulla 40ina posa il bambino sul sedile. Lo guardo. Il bambino, intendo. È bianco. Completamente bianco in volto. Velocemente noto il padre, padrone della situazione, in ginocchio davanti al bambino, ma la mia attenzione è catturata subito dalla donna, che è in piedi, oltre il bambino, quindi è un po’ distante da me: piange, urla spaventata, trema.

Con una naturale propensione, mi alzo, mi avvicino a lei e, mentre io le tendo la mano, lei me l’afferra, e guardandomi in modo implorante dice “aiutami!”. Sembra una bambina, completamente disarmata. Provo una tenerezza infinita.

La guardo fissa negli occhi e con calma la invito a respirare insieme a me, di farlo più lentamente, e l’ho percepito che si stava affidando, tanto che ho iniziato a sentire la mano meno serrata, ma comunque piena nella presa alla mia. Le dico, con voce posata, che ora è importante stare calma per suo figlio -che nel frattempo avevo scorto avesse riaperto gli occhi e che era lì accudito dal padre-, le dico che lui ha bisogno di lei in quel momento e che non è sola, ci sono io lì con lei. Mi ha fatto cenno con la testa di aver capito.

C’era un posto libero vicino a suo figlio, le chiedo se vuole sedersi. Lo fa e, nel mentre, continua a tenermi la mano. Resto in piedi, accanto a lei, e inizio anche ad accarezzarle la testa.

Come si siede, vedo quell’uomo, che davvero in quel momento stava impersonificando il ruolo del padre e del marito: da padre, lo ascolto che parla al figlio, con voce pacata e ferma; lo vedo che lo osserva attento e, inoltre, per stimolarlo al dialogo, sento che gli propone una Coca-Cola. Nel mentre, da marito, tiene la mano sul ginocchio di sua moglie e la rassicurava dicendole “guardalo, le labbra stanno riprendendo colore, sono rosse, tranquilla”.

Lì in quel momento c’era un UOMO: fermo, calmo, presente in tutti i modi in cui fosse possibile esserlo.

Arriva la loro fermata. Questo Papà e Marito, prende il bambino in braccio e dice a sua moglie “dai, andiamo a prendere una coca cola tutti insieme”. Lei si alza. Mi guarda. Mi ringrazia. Lui la chiama per nome e ripete, sempre con voce ferma e calma, guardandola dritta negli occhi, “andiamo, la Coca cola ci aspetta”. Lei lo raggiunge. Escono dalla metropolitana. Li vedo allontanarsi, mentre la metro riparte.

Ecco.

Oggi ti dono questo: l’immagine di una FAMIGLIA in un momento di crisi gestito con AMORE.

File: Famiglia

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Francesca Di Donato – Psicologa
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