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Monologo di Rula Jebreal.

4 anni ago · · 0 comments

Monologo di Rula Jebreal.

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine.

La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie.

Erano una specie di favole tristi.

Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano.

Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate.

Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore.

Io amo le parole.

Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore.

Anche e soprattutto per le donne.

Ma poi ci sono i numeri.

E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana.

E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa.

Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni.

Si è suicidata, dandosi fuoco.

Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente.

Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare.

Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.

Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica.

“Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico.

Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza.

Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi.

Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza.

All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Parlo agli uomini, adesso.

Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne.

Siate nostri complici.

E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è necessario parlare.

Certo ho messo un bel vestito.

Domani chiedetevi pure al bar “Com’era vestita Rula?”.

Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”.

Mia madre ha avuto paura di quella domanda.

Mia madre non ce l’ha fatta.

E così tante donne.

E noi non vogliamo più avere paura.

Vogliamo essere amate.

Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla nostre figlie.

Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola.

Vogliamo essere note, silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio.

Vogliamo essere questo: musica.

Monologo di Rula Jebreal

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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
Formatore e Supervisore: in presenza e online

4 anni ago · · 0 comments

Le tre passioni di Bertrand Russel

Tre passioni, semplici ma straordinariamente forti, hanno governato la mia vita:
la sete d’amore,
la ricerca della conoscenza, e una
struggente compassione per le sofferenze dell’umanità.
Queste passioni, come venti possenti, mi hanno spinto ora qua ora là, in un volo capriccioso, facendomi vagare sopra un profondo oceano di angoscia, fino a che ho raggiunto il limite estremo della disperazione.

Ho cercato l’amore, soprattutto perché l’amore è estasi, un’estasi talmente grande che spesso sarei stato pronto a sacrificare il resto della mia vita in cambio di poche ore di tale gioia.
E poi l’ho cercato perché mitiga la solitudine, quella terribile solitudine nella quale una coscienza tremante vede, al di là dei confini del mondo, il freddo e tenebroso abisso senza vita.
E infine l’ho cercato perché nel congiungimento d’amore ho visto, come in una mistica miniatura, la visione che prefigura quello stesso paradiso che hanno immaginato di vedere i santi e i poeti.
Questo è quello che ho cercato, e, sebbene possa sembrare troppo per la vita umana, questo è ciò che, alla fine, ho trovato.

Con eguale passione ho cercato la conoscenza.
Ho desiderato comprendere i sentimenti degli uomini.
Ho desiderato sapere perché le stelle brillano e ho tentato di afferrare la regola pitagorica che esprime numericamente ogni cambiamento nell’eterno fluire delle cose.
I miei desideri in questo senso sono stati esauditi, ma solo in piccola parte.

L’amore e la conoscenza, per quanto mi è stato dato di goderne, mi hanno sollevato fino a toccare il paradiso.

Ma, ogni volta, la pietà mi ha ricondotto sulla terra.
L’eco delle grida di dolore risuonavano nel mio cuore.
Bambini affamati, vittime torturate dai loro oppressori, anziani indifesi considerati un odioso fardello dai loro figli; e tutta la solitudine, la povertà e il dolore, si facevano beffa di ciò che la vita umana avrebbe dovuto essere.
Desidero fortemente alleviare i mali del mondo, ma non posso farlo e ne soffro.

Questa è la mia vita.
L’ho trovata degna di essere vissuta, e, se ne avessi la possibilità, sarei felice di viverla di nuovo.

Le tre passioni

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Francesca Di Donato – Psicologa
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Raccontami papà. Tratto da una storia vera. Francesca Di Donato

4 anni ago · · 0 comments

Raccontami papà. Tratto da una storia vera. Francesca Di Donato

Nonno Carlo è morto quando avevo sei anni.

Era il padre di mio padre.

Il giorno dei funerali, mi portarono a casa di Nonno Gennaro e Nonna Rosina, i genitori di mia madre, così che non presenziassi a un momento troppo difficile da sublimare per una bambina di soli sei anni.

Quando rientrai, a pomeriggio inoltrato, trovai mio padre sdraiato di sbieco, con le scarpe penzoloni fuori dal letto, vestito di scuro.
Vedendomi mi accolse dicendo: “Oggi mio padre è morto. E tu non c’eri.”

Forse neppure ricorda, oggi, di avermi detto questa cosa. Io, però, me la sono portata appresso.
Mi riecheggiava dentro come un severissimo, immeritato rimprovero: che cosa potevo sapere io della morte a sei anni?

Poi, qualche sera fa, sotto la doccia, un guizzo improvviso. Il giorno della morte di Nonno Carlo, mio padre aveva trentadue anni. Appena tre in più rispetto a quanti ne ho io adesso. 

Nell’immaginazione dei figli, i genitori sono sempre stati adulti, sono nati grandi.

Per me, mio padre ha sempre avuto cinquantacinque anni, come oggi.  Anche quando ne aveva venti. O ventisei. O trentadue. Quasi che non riuscissi a vedere l’uomo dietro il padre, o la ragazza prima che diventasse mamma.

Perché immaginarli giovani significa vederli umani, ammettere che non sono infallibili, che possono cadere, sbagliare, persino morire: un figlio fa fatica a perdonarle, certe umanità.

Solo adesso capisco che mio padre perdeva suo padre mentre imparava a diventare mio padre.
E quel “Tu non c’eri” non era un rimprovero: era il suo modo per aggrapparsi a me, alla persona più importante della sua vita, mentre un altro pezzo di vita veniva dato alla terra e alla polvere. Perciò, quando tornerò a casa, mi siederò a tavola e dirò a mia madre e a mio padre: “Raccontatemi chi siete”.
E’ l’unico vero proposito che ho per il nuovo anno. E per quelli futuri. 

Raccontami papà

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Francesca Di Donato – Psicologa
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4 anni ago · · 0 comments

Quando ho cominciato ad amarmi davvero

Quando ho cominciato ad amarmi davvero ho capito di trovarmi sempre e in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo.
Oggi so che questo si chiama autostima.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero mi sono reso conto che la sofferenza e il dolore emozionale sono solo un avvertimento che mi avverte di non vivere contro la mia verità.
Oggi so che questo si chiama autenticità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere.
Oggi so che questo si chiama maturità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero ho capito com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama rispetto.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: cibi, persone, cose, situazioni e da tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso, all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma oggi so che questo è amore di sé.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questo si chiama semplicità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero ho smesso di voler avere sempre ragione. E così ho commesso meno errori.
Oggi mi sono reso conto che questo si chiama umiltà.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo.
È la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo pienezza.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare mi sono reso conto che il mio Pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho imparato a farlo dialogare con il mio cuore, l’intelletto è diventato il mio migliore alleato.
Oggi so che questa si chiama saper vivere!

di Kim e Alison Mcmillen, rielaborata da Charlie Chaplin

Quando ho cominciato ad amarmi davvero

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4 anni ago · · 0 comments

Il cervo e il leone – Esopo

C’era una volta, in una grande foresta, un bellissimo cervo con delle maestose corna tutte ramificate.

Il cervo era talmente orgoglioso delle sue corna, così belle, grandi e ben proporzionate che andava spesso al laghetto per ammirarle specchiandosi nelle sue acque.
Passava ore e ore a guardare il suo riflesso nell’acqua e ogni giorno era sempre più fiero.
Il cervo, però, non poteva proprio sopportare di vedere quelle maestose corna e quel corpo atletico tenuti su da delle zampe così magre e ossute. Faceva veramente fatica ad accettare quel contrasto.

Un giorno però, mentre era al laghetto tutto intento a specchiarsi, sentì un rumore insolito. Alzò lo sguardo e vide a qualche decina di metri da sé, un leone.
Il leone lo stava guardando dritto negli occhi e a un certo punto ruggì con forza.
Il cervo capì immediatamente che doveva fuggire il più velocemente possibile, altrimenti il leone gli sarebbe saltato addosso con un paio di balzi.

Così il cervo fece uno scatto e si addentrò nella foresta.
Il leone non fu da meno e si diede subito all’inseguimento del cervo.

Il cervo conosceva bene tutti i sentieri del bosco, e sapeva che, se voleva salvarsi, avrebbe dovuto portare il leone verso la montagna, dove un torrente aveva scavato una profonda gola che lui avrebbe potuto saltare, mentre il leone non ci sarebbe mai riuscito.
Ma il leone lo inseguiva con balzi sempre più grandi e si stava avvicinando sempre di più.

Il cervo capì che, se continuava a correre in quel modo, il leone gli sarebbe stato addosso in pochi balzi. Così iniziò a zigzagare per tutto il bosco, saltando siepi e arbusti grazie alle sue zampe snelle e scattanti.
Il leone iniziò a essere in difficoltà: finché si trattava di correre dritto poteva raggiungere facilmente il cervo, ma ora la sua preda continuava a saltare a destra e a sinistra e lui non riusciva ad avere la stessa agilità.

Il cervo a poco a poco guadagnava terreno sul leone, finché ecco! Vide le prime rocce della montagna!
Il cervo sapeva che poteva mettersi in salvo, doveva solo arrivare al torrente e saltare dall’altra parte della riva.
Il leone intanto iniziava a dare i primi segni di cedimento, ma non si era ancora dato per vinto.
Finché il cervo, arrivato al torrente, raccolse tutte le forze che gli rimanevano e… Hoop! Con le sue agili zampe posteriori spiccò un balzo che lo portò dall’altra parte della riva.
Era in salvo.

Il leone arrivò alla riva del torrente e si fermò bruscamente.
Sapeva che non sarebbe mai riuscito a saltare dall’altra parte.
I due si fissarono a lungo negli occhi, sapendo entrambi che la caccia era stata solo rimandata a un altro giorno.
Poi il leone si voltò e andò via lentamente.

Il cervo, col cuore ancora in gola, guardò giù nel torrente.
C’era un punto in cui si formava una pozza e l’acqua era più ferma.
Il cervo vide la sua immagine, con le esili e snelle zampe che facevano tanto contrasto con le corna grandi e maestose.
Quelle zampe per lui così brutte e tanto denigrate, però, lo avevano appena tratto in salvo dal leone.
Le sue corna erano sicuramente meravigliose, ma le sue zampe, anche se non erano la parte più bella del suo corpo, erano la cosa più utile ed efficace che possedeva.
Decise, quindi, di non criticarle più, anzi di averne molta cura.

Da quel giorno smise perciò di guardarsi nelle acque del laghetto, e non dimenticò mai la lezione imparata quel giorno.

Il cervo e il leone di Esopo

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La cornacchia vanitosa – Esopo

C’era una volta una cornacchia, tutta nera. Un giorno, mentre volava sopra il bosco, vide su un prato dei bellissimi pavoni e si fermò sopra il ramo di un albero per ammirarli.

I pavoni si accorsero presto che la cornacchia stava appollaiata lì sul ramo ad osservarli e, da gran vanitosi che erano, fecero tutti la ruota con la coda.
La cornacchia, abbagliata dalla bellezza della loro coda, volò via.

Andò così a specchiarsi nell’acqua dello stagno e si vide così brutta che decise di non mostrarsi più in giro per la vergogna.

Invidiosa del magnifico comportamento e delle splendide piume dei pavoni iniziò a spiarli ogni giorno in gran segreto e lo fece da un albero un po’ più nascosto del precedente.
La cornacchia si accorse così che, sparse per il prato, c’erano delle penne cadute dalle code dei pavoni e lasciate lì sul prato.
Decise, allora, di aspettare il tramonto per poterle andare a prendere di nascosto.
Non appena riuscì a raccoglierne cinque, volò via e andò a nascondersi in un posto riparato, dove con un po’ di colla le attaccò alla sua coda.

Il mattino dopo andò ad ammirare nelle acque dello stagno la sua nuova coda di pavone, pensando: “Adesso sono anche io bella come i pavoni! Andrò dalle mie compagne cornacchie e le farò morire di invidia!”.
La cornacchia andò dalle sue compagne che, vedendola, iniziarono veramente a morir d’invidia: quella coda con le penne di pavone era davvero bellissima.

Purtroppo, però, l’arroganza della cornacchia non la trattenne dal prendere in giro le sue compagne, dicendo loro che erano brutte e con le penne spelacchiate.
Le compagne cornacchie, arrabbiate come non mai, la cacciarono via a beccate, dicendole di non farsi più vedere.

La cornacchia volò via e andò a consolarsi sul ramo d’albero da cui guardava di solito i pavoni.
“Le mie compagne cornacchie non mi meritano” -pensò- “meglio andare a vivere con i pavoni. Siccome ormai sono bella come loro, non saranno invidiosi”.
E così la cornacchia volò sul prato in mezzo a tutti i pavoni, salutandoli felicemente.

Ma i pavoni, vedendo arrivare in mezzo a loro questa cornacchia spelacchiata, con in più attaccate alla sua coda alcune delle loro bellissime penne, rubate chissà quando, non la presero molto bene.
Iniziarono a correrle dietro per scacciarla dal loro prato e cercavano anche di beccarla.
Alla fine la cornacchia dovette prendere il volo ed andare via.

Umiliata e triste, la cornacchia si staccò le penne di pavone dalla coda e con la testa bassa tornò dalle sua compagne cornacchie che ridendo e scherzando la accolsero di nuovo tra loro, perché erano le sue amiche di sempre.

La cornacchia vanitosa di Esopo

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Il topo di città e il topo di campagna – Esopo

C’era una volta un topino che viveva in città e che un giorno decise di fare una gita in campagna.
Era stufo della vita frenetica che faceva ogni giorno e voleva rilassarsi un po’ tra i prati verdi e all’ombra di qualche grande albero.

Mentre riposava tranquillo, passò di lì un topino di campagna: “Buongiorno!” gli disse il topino di campagna.
– “Buongiorno a te! -rispose il topino di città- Sei di queste parti?”
– “Certamente, abito con la mia famiglia un po’ più in là, vicino a quel boschetto.”
– “Come ti invidio… -gli disse il topino di città- tu stai qui tranquillo e sereno senza preoccupazioni, io invece devo correre tutto il giorno di qua e di là per non farmi prendere!”
– “Ma scusa, tu da dove vieni?” chiese incuriosito il topino di campagna.
– “Vengo dalla città.”
– “Ma allora sei tu quello fortunato! Lì in città avete tutte le comodità del mondo e anche cibo in abbondanza! Qui ci sono periodi in cui si fa la fame…”
– “Guarda amico mio, ti propongo uno scambio. Io vengo a vivere qui in campagna e tu vai a vivere da me in città, ci stai?”
– “Va bene, ci sto!” rispose tutto contento il topino di campagna.
E così i due si avviarono alle rispettive nuove case.

Al topino di città non sembrava vero di poter finalmente stare tranquillo per un po’, senza dover correre dalla mattina alla sera.
Per il topino di campagna, il solo pensiero di avere una dispensa piena di cibo da poter usare a proprio piacimento era più di un sogno che si realizzava.

Il topino di città, all’inizio, trovava anche divertente il dover andare a caccia ogni giorno di un piccolo pezzo di formaggio o il doversi ingegnare su come raccattare una briciola di pane. In città aveva messo su grasso in abbondanza e aveva un po’ di pancetta da smaltire.

Invece il topino di campagna, finalmente, non doveva più preoccuparsi di dover ogni giorno trovare un modo per riempirsi la pancia: bastava entrare in cucina e servirsi. L’unico inconveniente era il dover stare attento al padrone di casa, a sua moglie, ai due figli e ai tre terribili gatti che in ogni momento cercavano di fargli la pelle.

I giorni e le settimane passavano.

Dopo un mese, il topino di città iniziò a rimpiangere le grandi abbuffate che faceva a tutte le ore del giorno. Adesso era già tanto se raggranellava qualche pezzettino di pane raffermo o una fetta di formaggio ammuffita.

Il topino di campagna, invece, non ne poteva più di rischiare la vita ogni volta che entrava in cucina per rubare un pezzettino di formaggio: il batticuore e la paura erano troppo per lui.

Così decisero entrambi di ritornare indietro da dove erano venuti e si incontrarono a metà strada.
– “Ciao amico topo di campagna!”
– “Ciao amico topo di città!”

I due si abbracciarono e si ringraziarono per le esperienze che avevano potuto fare scambiandosi la casa.
Soprattutto avevano imparato ad apprezzare ciò che possedevano e che era inutile essere invidiosi l’uno dell’altro.
Giurarono solennemente che sarebbero rimasti per sempre amici e ciascuno, felice, corse veloce a casa sua.

Il topo di città e il topo di campagna di Esopo

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Al lupo! Al lupo! – Esopo

C’era una volta, in un piccolo paesello in mezzo alla campagna, Loris, un pastorello un po’ monello. Lui si divertiva sempre a fare un sacco di scherzi.

Da qualche giorno, però, alcuni cacciatori avevano avvistato nel bosco vicino al paese un grosso lupo, che si aggirava in cerca di cibo.
Quella notte, infatti, dal gregge di un vicino erano sparite delle pecore, molto probabilmente prese e mangiate dal lupo.

Il giorno seguente, suo papà decise che per Loris era giunto il momento di dare una mano al lavoro in fattoria e gli disse, quindi, di fare la guardia al suo gregge di dieci pecore, durante la notte.
Non doveva far altro che stare nella parte alta del fienile, dove nessun lupo sarebbe potuto arrivare.
Una raccomandazione il padre gli comunicò: se per caso avesse sentito dei rumori strani o addirittura fosse riuscito a vederlo, avrebbe dovuto correre in strada e gridare “Al lupo! Al lupo!”, così anche i vicini sarebbero accorsi e avrebbero dato una mano ad acciuffarlo.

Loris, da bravo ragazzo, quella sera si mise a guardia delle pecore, ma il tempo passava e non succedeva niente: “Uffa! Io qui mi annoio…”.
Una pecora lo guardò belando: Beee…
Loris le fece la linguaccia e continuò a sorvegliarle.

Le ore sembravano non passare mai, le pecore dormivano tranquille, ma del lupo non c’era nessuna traccia.
La noia era talmente tanta che si stava per addormentare, quando gli venne in mente uno scherzo che avrebbe divertito tutto il paese.

Scese giù dal fienile e corse in strada gridando “Al lupo! Al Lupo!” e in men che non si dica mezzo paese era già uscito dalle proprie case col forcone in mano, pronto a dar la caccia al lupo.
Suo papà gli corse incontro e gli chiese: “Dimmi ragazzo mio, dove hai visto il lupo?”
Loris, sorpreso da tanto trambusto, non sapeva cosa rispondere: “Scusatemi tutti, mi stavo annoiando tanto a far la guardia alle pecore che ho pensato di farvi uno scherzo…”

Gli abitanti del paese un po’ arrabbiati per essere stati tirati giù dal letto a quell’ora della notte, ma sollevati dal sapere che non c’era il lupo, tornarono borbottando nelle loro case.
Loris tornò a far la guardia alle pecore, tutto contento e divertito per lo scherzo ben riuscito.

La notte seguente fu uguale: Loris si annoiava talmente tanto che, ad un certo punto, decise di replicare lo scherzo della notte precedente. Corse di nuovo in strada gridando “Al lupo! Al Lupo! ” e in men che non si dica mezzo paese era già uscito dalle proprie case col forcone in mano, pronto a dar la caccia al lupo.
– “Dimmi ragazzo mio, dove hai visto il lupo?” gli chiese suo papà.
– “Scusatemi tutti, mi stavo annoiando tanto a far la guardia alle pecore che ho pensato di farvi uno scherzo…”

Questa volta gli abitanti del paese la presero meno bene e il suo papà, dopo averlo sgridato sonoramente, lo rimandò di corsa a far la guardia al fienile.
Per Loris era troppo divertente veder uscire di casa in pigiama tutti i suoi vicini che decise di continuare a fare lo scherzo ogni santa notte.

Solo che dopo un po’ la gente, stufa di questo stupido scherzo, non lo stava più ad ascoltare. Si girava nel letto e continuava a dormire.

Finché, una notte, Loris corse ancora in strada gridando “Al lupo! Al lupo!”, ma nessuno si degnò di uscire di casa.
Così rimase triste e solo in mezzo alla strada, il suo scherzo ormai non funzionava più. Ritornò, quindi, al suo fienile e si mise comodo sulla paglia a far la guardia alle pecore.

Ma poco dopo sentì uno strano rumore provenire da fuori, si alzò per guardare meglio verso la porta e cosa vide?
Il lupo.
Era entrato nel suo fienile.

Loris finalmente poteva dare dimostrazione della sua bravura e del suo coraggio, scese dall’altra parte del fienile e corse in strada gridando “Al lupo! Al lupo!” con tutta l’aria che aveva nei polmoni, ma nessuno, anche stavolta, si degnò di uscire di casa.
“Al lupo! Al lupo!” continuò a gridare il povero Loris. Ma nessuno ormai credeva più alle sue parole.
“Al lupo! Al lupo!” si sgolò Loris.
“Loris, piantala!” gli gridò uno dei vicini.
Fu allora che Loris capì che nessuno lo avrebbe ascoltato, proprio ora che invece stava dicendo la verità.

Loris sapeva di averla fatta grossa questa volta, perché infatti quando tornò a controllare il fienile, le pecore non c’erano più! Il lupo le aveva portate via tutte!
E adesso chi lo sentiva il papà?!

La sgridata per Loris fu esemplare. Loris promise solennemente di non dire mai più bugie e di smetterla di fare scherzi di cattivo gusto come quello, perché, quando ci sono in giro i lupi, non si scherza!

Al lupo! A lupo! di Esopo

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Il leone e il topo – Esopo

C’era una volta nella grande foresta un maestoso leone che si riposava all’ombra di un grande albero.
Stava controllando se in lontananza c’erano delle prede da poter cacciare, ma in quel momento non vedeva niente di interessante.
Così il pomeriggio passava lento, all’orizzonte non c’era nessuna preda da poter prendere e la pancia iniziava a brontolare dalla fame.
– “Forse è meglio se mi sposto da qui e vado a cacciare in un’altra zona” disse abbastanza infastidito al pensiero di doversi alzare.

Ma proprio quando ormai aveva deciso di alzarsi e andare via, ecco un piccolo topolino corrergli proprio davanti alle zampe. Il leone colse al balzo l’occasione e, con uno scatto felino, bloccò la coda del topino con la zampa.
Il topino, che sperava di non essere visto, iniziò a urlare disperato quando sentì di essere bloccato.
Il leone già pregustava il piccolo bocconcino come antipasto e si stava leccando i baffi.
Il topino, con le lacrime agli occhi iniziò a supplicarlo: “Non mi mangiare, signor leone, ti prego non mi mangiare!”
Il leone sorrise e iniziò a tirare con la zampa il topino verso di sé.
– “Non mi mangiare, signor leone -continuò il topino- non ti sazierei che per pochi minuti da tanto sono piccolo.

Il leone pensò che questo era vero: quel topolino gli avrebbe placato la fame giusto per il tempo di alzarsi da lì.
– “E poi le mie piccole ossicine rischierebbero di andarti di traverso in gola.”
Anche questo era vero, pensò il leone, che smise di trascinare verso di sé il topolino.
– “Se mi lascerai andare ti sarò riconoscente per tutta la vita!” disse infine il topo.
Il leone, mosso più dalla fatica di ingoiare quel piccolo pasto che dalla pietà per il topolino, lo lasciò andare: “Vai topolino, forse un giorno ci rivedremo…”
Il topolino ringraziò solennemente con grandi inchini e bacia-zampe e poi scomparve tra le sterpaglie della foresta.

Il leone si decise infine di andare in cerca di altre prede.
Si incamminò dentro la foresta, ma dopo essere avanzato un po’ ecco che all’improvviso un legaccio fatto di corda lo intrappolò.
Il leone capì subito che quella era la trappola costruita da qualche cacciatore e sapeva benissimo che da quel tipo di trappole non c’era scampo.

Il leone tirò con tutte le forze per cercare di liberarsi, ma più tirava, più il legaccio gli si stringeva alle zampe e gli faceva male. Dopo molti tentativi il leone si rassegnò e si mise ad attendere il proprio destino.
Ma ad un tratto sentì qualcosa che stava lavorando sulla corda.
Guardò meglio e si accorse che il topolino di prima stava cercando di tagliare il legaccio con i suoi denti aguzzi.

– “Non preoccuparti, signor leone, tra poco sarai di nuovo libero.”
Il leone fu sorpreso dal gesto del topolino. Non si sarebbe mai aspettato che un animaletto così piccolo avrebbe potuto salvargli la vita: “Topolino mio, io ti ho risparmiato la vita, e ora tu salvi la mia, questo ti fa grande onore!”
Il topolino intanto lavorava veloce e in pochi attimi il leone fu libero.

– “Signor leone, quando si dà la parola d’onore, la si mantiene!”
– “Certo topolino mio e io ti ringrazio moltissimo per avermi liberato da questa trappola terribile. Ora siamo pari e per tutta la vita anche io ti sarò riconoscente.”

I due si salutarono e andarono ognuno per la propria strada.
Ma il leone aveva imparato una lezione importantissima: bisogna essere gentili con tutti, anche con il più piccolo degli esseri viventi, perché l’aiuto più importante della vita potrebbe arrivare proprio da lì.

Il topo e il leone di Esopo

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La volpe e l’uva – Esopo

C’era una volta una volpe che vagava tranquilla per il bosco.
Aveva appena bevuto da un ruscello e si stava avventurando in cerca di cibo verso i campi coltivati, appena fuori dal paesello vicino.

Era già mattina inoltrata e la fame iniziava a farsi sentire con sonori brontolii provenienti dal pancino.
A un certo punto, dopo aver camminato per un po’, la volpe vide una bella vigna piena di bellissimi grappoli d’uva. Controllò che non ci fossero pericoli in vista e si avvicinò furtiva a uno dei grappoli, quello che le sembrava più vicino.
Non c’era nessuno nelle vicinanze: era il momento perfetto per fare un bel salto e prendersi il grappolo! La volpe quindi prese la rincorsa e hop! Fece un balzo cercando di afferrare coi denti il grappolo, ma niente. Non ci arrivò.
La volpe, allora, prese un po’ più di rincorsa e hop! Fece un altro balzo, ma anche questo non era abbastanza alto per riuscire ad arrivare al grappolo d’uva.
La volpe allora provò a prendere una rincorsa ancora più lunga e hop! Niente, non arrivò a prendere il grappolo d’uva.
Intanto il suo pancino brontolava sempre più dalla fame.

La volpe provò e riprovò.
Le mancava sempre un soffio per prendere il grappolo d’uva, ma non c’era verso, non riusciva.
Stremata dalla fatica e dalla fame, la povera volpe guardò se nella vigna c’erano altri grappoli, magari più bassi, da poter prendere ma, niente, erano tutti più in alto di quel grappolo che lei aveva cercato con tutte le sue forze di acciuffare.

La volpe diede un ultimo lungo sguardo al bel grappolo d’uva che tanto aveva sognato di mangiare e, per non ammettere di non essere riuscita nella sua impresa, si disse: “Meglio così, tanto di sicuro quel grappolo era ancora acerbo e mangiarlo mi avrebbe solo fatto venire mal di pancia.” anche se sapeva benissimo che non era vero.

Così, sconsolata e ancora più affamata, ritornò con la coda tra le gambe nel suo boschetto. Si mise a caccia di qualcos’altro da mangiare, cercando questa volta di adocchiare qualcosa che avrebbe sicuramente preso.

La volpe e l’uva di Esopo

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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
Formatore e Supervisore: in presenza e online

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