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Aiutare chi aiuta. L’importanza del caregiver – di Enrico Olivieri Psicologo

“Aiutare chi aiuta” 

L’importanza del caregiver 

 

“Quando una persona cara si ammala, la malattia appartiene a tutta la famiglia”. 

Si parla di caregiver – “colui/colei che “fornisce cure” – quando una persona all’interno (o all’esterno) della famiglia si prende cura di un familiare, un congiunto ammalato o una persona disabile; accudisce cioè qualcuno che ha subìto una diminuzione o perdita di autonomia per vari motivi (disabilità, demenza, ecc.).  

In questo articolo mi occuperò del caregiver familiare, il quale si distingue dal caregiving professionale, dove chi presta cure è personale specializzato e abilitato (es. infermiere, operatore socio sanitario, badante, assistente domiciliare, ecc.)

I costi emotivi da sostenere nella malattia del proprio caro, per il caregiver familiare, sono molteplici e riguardano l’accettazione o non accettazione della malattia, i cambiamenti di ruolo (da coniuge a genitore o da figlio a genitore), il dolore, la conflittualità, la perdita affettiva e relazionale.

Spesso nella famiglia si “sceglie” in modo più o meno esplicito il “caregiver principale”, ovvero colui che in prima persona e per un lungo periodo di tempo si prende cura del malato. La designazione di un caregiver principale, da un lato può essere utile per dare un punto di riferimento stabile al malato, ma dall’altro può portare al riacutizzarsi di dinamiche familiari irrisolte. Inoltre, va ricordato che il caregiver principale non deve diventare esclusivo, ma deve poter concedersi dei momenti per vivere altri ruoli relazionali importanti e per dedicarsi a se stesso e ai propri interessi. Avere degli spazi personali in cui sentirsi gratificato è fondamentale per potersi relazionare meglio con il malato.

L’assenza di spazi dedicati al proprio benessere può essere deleteria; alcuni comportamenti alimentari e/o abitudini diventano una valvola di sfogo (come alcool o fumo) e portano, nel lungo termine, a conseguenze dannose a livello psico-fisico. Tutto ciò può portare ad avere un malato incompreso che diventa molto più difficile da gestire perché, sentendosi frustrato, svilupperà più facilmente comportamenti difficili, aumentando lo stress del caregiver. Questo processo può aumentare fino a portare ad una frattura nella relazione di cura. In queste situazioni è bene che il caregiver espliciti le proprie difficoltà di gestione e condivida con gli altri membri della famiglia e con gli altri curanti i propri stati emotivi ed eventualmente la scelta di modalità assistenziali diverse.

Il “caregiving” è dunque un’attività difficile e destabilizzante.
Come emerge dalla maggior parte degli studi al riguardo, il caregiver manifesta rabbiastanchezzasenso di colpa (per il timore di non essere adeguato al compito), o percepisce una propria supposta “inutilità”.
Dal punto di vista psicologico i sintomi depressivi e i problemi d’ansia sono le criticità più diffuse nel caregiving (stress cronico). Inoltre, possono comparire una serie di disturbi psicofisici quali gastriti, mal di testa e dolori dovuti allo sforzo fisico che si compie.

Sono tante le variabili che possono influire sullo stress del caregiver e sulla gestione del malato, ma sicuramente il chiedere aiuto, in particolar modo a chi lavora con i malati di Alzheimer o a persone che vivono situazioni simili (malattie degenerative), può essere molto utile nel trovare soluzioni pratiche e nel condividere un “fardello” molto pesante.

Sarebbe utile ricordare a se stessi che si è importanti per sé e per il malato, informarsi, considerare i propri limiti, soddisfare i propri bisogni e interessi, condividere i problemi con la famiglia, non avere paura o vergogna di ammettere le difficoltà, farsi aiutare da esperti, prendersi periodi di riposo e ricaricare le energie.

La consapevolezza della malattia da parte del caregiver è fondamentale perché giunge all’accettazione della situazione ed è grazie a questa che riesce ad affrontare le proprie sofferenze psicologiche e a superarle. Flessibilità e capacità di adattamento, poi, sono chiavi principali per la sopravvivenza del caregiver, grazie alle quali intuire soluzioni che andranno continuamente sperimentate, verificate, riviste, riaggiustate con il progredire della malattia.

Come sottolineato, accudire una persona malata, richiede molto tempo ed energie per cui nei familiari possono insorgere, come conseguenza, degli alti livelli di stress, rabbia, stanchezza, senso di colpa, ansia e depressione.

Lo psicologo potrà aiutare nel processo iniziale di elaborazione della diagnosi, nell’accettazione del cambiamento relazionale ed ambientale, nella gestione dell’impatto emotivo, nel sostegno e supporto e, nella elaborazione del cordoglio anticipatorio se necessario. Inoltre, può facilitare il riconoscimento delle risorse personali e familiari e il loro utilizzo, aiutando a gestire le dinamiche familiari disfunzionali e promuovendo il cambiamento dell’organizzazione familiare.  

In conclusione. 

L’assistenza al malato è un compito arduo, non esistono risposte semplici alle difficoltà da affrontare, né regole fisse da seguire che funzionino in ogni situazione. Ogni malato è diverso, così come diversi sono i caregivers e i contesti familiari, socio-culturali ed economici in cui si inserisce la patologia.  

Prendersi cura del proprio benessere psicologico è indispensabile per aiutare l’altro.

Ci si può concedere ogni giorno una pausa, anche solo di mezz’ora.  Tutto ciò non è un atto egoistico ma aiuterà a essere un caregiver migliore.
__________________________
Dott. Enrico Olivieri – Psicologo Tel.348/7931382
Ricevo a Sassari e online
Email: enrico.5@hotmail.it
Sito web: www.psicoasi.it 

Autismo e psicomotricità – di Francesca Maddalena, mamma di principessa Sofia

4 anni ago · · 0 comments

Autismo e psicomotricità – di Francesca Maddalena, mamma di principessa Sofia

Maria Montessori diceva:

“La mano è lo strumento espressivo dell’umana intelligenza: essa è l’organo della mente… La mano è il mezzo che ha reso possibile all’umana intelligenza di esprimersi ed alla civiltà di proseguire nella sua opera.”

Una grande verità. Non solo la mano ma tutto il braccio e lo stesso gomito sono fondamentali. Certo noi “neurotipici” non ci facciamo neanche caso giacché per noi è così “normale” utilizzare mani e braccia che non ci poniamo proprio il problema.
I bambini con disturbo dello spettro autistico presentano, oltre alla compromissione del linguaggio verbale, una certa goffaggine e/o ritardo generalizzato nelle acquisizioni di motricità fine e nella coordinazione motoria (prendere, infilare, tenere un oggetto, incastrare, versare).
Per molti di loro, compreso Principessa Sofia, è impossibile scrivere e/o disegnare oppure vestirsi e lavarsi.
Anche riempire un bicchiere d’acqua per poi bere può essere un’ardua impresa.
Vista la giornata di pioggia che non ci consente di fare granché, ho pensato oggi di giocare con Sofia con l’acqua e l’imbuto. Sofia è stata molto brava.
Chiaramente l’esercizio è riuscito perché alla base ci sono moltissimi esercizi propedeutici svolti nelle sedute di terapia.
Se per sviluppare le piccole autonomie si propongono giochi con l’acqua o con la musica, Sofia si mostra molto più disponibile alla collaborazione e il successo cognitivo e neuromotorio che ne consegue è il più delle volte in questo modo assicurato in tempi non troppo lunghi.
Visto il successo di oggi, proverò nei prossimi giorni con una bottiglietta piccola non troppo piena e quindi più leggera (senza tappo… anche su questo stiamo lavorando) e il bicchiere in modo che possa versare l’acqua e bere in totale autonomia.
Certo all’inizio sarà più l’acqua che cadrà per terra ma sinceramente questa è l’ultima delle mie preoccupazioni…
Sei tosta Sofy, sei il mio orgoglio, sei una campionessa oltre ad essere la più bella delle principesse.
“Che tu possa vincere, ma se non riuscissi, che tu possa tentare con tutte le tue forze!” Io sarò lì accanto a te sempre! 💙💙💙


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Francesca Maddalena, Mamma di Principessa Sofia

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“Quando c’era Marnie” e il lutto – di Cristina Pellegrino Psicologa

ATTENZIONE: Dopo una breve introduzione, l’articolo contiene spoiler del film.

Quando c’era Marnie” è un film animato dello studio Ghibli. La trama copre l’estate di una ragazza, Anna, passata in un paesino di campagna, vicino a un acquitrino, dove incontra Marnie.

Anna è una ragazzina introversa, con difficoltà a rapportarsi con i coetanei e gli adulti. Orfana, è stata adottata da una zia apprensiva ma amorevole.

Marnie abita in una lussuosa casa che dà sull’acqua, non vede spesso i genitori. Si presenta come vivace, ma nasconde una malinconia dovuta al fatto che è spesso sola e non si sente a suo agio a vivere con le domestiche che a tratti la maltrattano.

Perché la storia di Anna e Marnie parla di lutto, come indica il titolo di questo articolo?

Perché tutte le vicende di Anna e Marnie e le loro avventure sono il modo di Anna di elaborare il proprio personalissimo lutto.

Marnie ragazzina rappresenta la nonna di Anna, come scopriamo alla fine del film, e tutte le scene in cui le vediamo insieme sono i ricordi che la nonna Marnie stessa aveva raccontato a una giovanissima Anna prima di morire.

Anna è una ragazzina delle medie ed è cresciuta con la zia, perdendo memoria dei primissimi anni di vita se non qualche sporadico ricordo particolarmente pregnante, come il funerale dei suoi genitori e i parenti che discutono su chi dovrebbe occuparsi della bambina, rendendo chiaro che nessuno la vorrebbe in carico.

Anna comincia a provare un sentimento di inadeguatezza, che cresce esponenzialmente quando scopre che la zia percepisce dei soldi per il suo mantenimento. A questo sentimento si aggiunge pian piano della rabbia, che la ragazza manifesta apertamente in una conversazione con Marnie, è arrabbiata con i genitori e con la nonna perchè sono morti lasciandola sola. Questa rabbia riempie il profondo senso di abbandono che Anna ha vissuto alla morte dei suoi cari, abbandono che rivive anche con Marnie, quando dopo un’esperienza spaventosa nel silo scopre che l’amica non è più lì con lei, alimentando ulteriormente la grande rabbia in un circolo vizioso.

La rabbia è un sentimento profondo, intenso e del tutto naturale quando si affronta la perdita di una persona cara, così come il senso di abbandono. Sappiamo che i nostri cari non ne hanno colpa, ma non possiamo fare a meno di sentirci come se ne avessero la piena responsabilità. La rabbia può manifestarsi anche verso sé stessi o terzi, ed è importante riconoscerla ed accettarla, senza sentirci in colpa per quello che proviamo.

Infine il circolo vizioso si spezza nel momento in cui Anna si confronta con Marnie. Dopo averla accusata di averla abbandonata, riceve una richiesta di perdono da parte di Marnie, la quale afferma che non riusciva più a trovarla e che presto dovrà andarsene e non si vedranno più. Questa scena rappresenta il momento chiave dell’elaborazione del lutto di Anna, che riesce a perdonare e a lasciar andare Marnie, perdonando e lasciando andare contemporaneamente la rabbia causata dai genitori e dalla nonna morti tanti anni prima.

Nonostante qui Anna non abbia ancora recuperato l’intera storia della nonna, si può dire che è il momento in cui elabora il lutto poiché, a qualche livello più profondo della consapevolezza, Anna sa chi Marnie rappresenta per lei. Inoltre non sempre le emozioni seguono la ragione, in questo caso il sentimento di pace che prova Anna precede il venire a conoscenza della storia completa.

Colpisce particolarmente l’aspetto grafico di questa scena in cui, finché Anna è preda del tumulto della propria rabbia e delle proprie emozioni, il cielo rimane tempestoso, il clima freddo e ventoso, impetuoso. Nel momento del perdono assistiamo a una letterale schiarita del cielo, che torna sereno, il vento si placa e la pace si percepisce anche solo osservando le immagini.

Il perdono, di sé, dei cari morti, dei terzi verso cui volgeva la nostra rabbia, consente di accettare quel che è accaduto. Per quanto le persone possano lasciare in noi una mancanza, il perdono consente di tornare a vivere serenamente, trattenendo in noi i bei ricordi e ciò che di buono ci hanno lasciato i nostri cari.

Questo è ciò che vediamo succedere con Anna quando, con ritrovata sicurezza e pace interiore, ascolta la storia, raccontata dall’amica di sua nonna, di Marnie e dei suoi genitori. Venire a conoscenza della storia completa, consente ad Anna di raggiungere quel senso di chiusura e di completezza, cosa che fa sì che ricordi che aveva rimosso tornino a galla, come le storie raccontate dalla nonna quando era bambina e che ha rivissuto nel corso dell’estate con una giovanissima Marnie.

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Cristina Pellegrino – Psicologa Tel. 347/4811379

Ricevo su Skype all’indirizzo pellegrinocristina.psicologia@outlook.it

Facebook: https://www.facebook.com/cristinapellegrinopsicologa

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Sito Web: https://si-faccio-la-strizzacervelli—cristina-pellegrino-psicologa.webnode.it/

 

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