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Non smetto quando voglio 1/2 – terapia della dipendenza

4 anni ago · · 0 comments

Non smetto quando voglio 1/2 – terapia della dipendenza

Non smetto quando voglio! L’importanza del trattamento delle dipendenze in equipe.

Prima che inizi con la lettura di questo articolo, ci tengo a sottolineare un aspetto:
nell’articolo, verrà richiamata l’attenzione alla dimensione della manipolazione e al mentire -a se stessi e al mondo- come dimensioni frequenti e spesso anche accentuate con questo tipo di problematica. È per me importante soffermarmi un attimo su questo aspetto affinché questo tipo di dimensioni non vengano utilizzare per alimentare lo stigma o trarre conclusioni giudicanti.
La manipolazione va intesa come tentativo di dare forma a qualcosa, secondo  ciò che la persona ha imparato dalla sua storia di vita: diventa quasi una forma di adattamento volta a trovare una coerenza nell’esperienza di vita e relazionale.
Il mentire, non troppo distante dalla dinamica sopra descritta, nasconde un disperato tentativo di essere accettati, accolti al di là della narrazione messa in gioco dalla persona, anche perché -come vedremo più avanti- una dinamica non particolarmente rara è la proiezione del proprio giudizio su se stessi al di fuori, cosa che porta, poi, a relazionarsi con l’altro alla luce di questa proiezione.
La mistificazione stessa, nutrita di non detti e di segreti, è quella condizione che sul piano sistemico-familiare sostiene il problema della dipendenza, quindi è, a mio parere, ancora più importante portare alla luce, all’esplicitazione di quelle narrazioni -di chi ha una dipendenza- che nascondono la vera identità del problema stesso: la capacità del professionista deve essere quella di gestire tutto questo senza giudizio morale, ma con autentica accettazione e accoglienza. 
Quindi, chi ha una dipendenza non è un bugiardo o un manipolatore, ma è una persona la cui grande sofferenza porta a cercare un modo di stare al mondo che tenga insieme i pezzi di ciò che ha vissuto con ciò che sta vivendo. 
Si tenga conto, inoltre, che qui l’attenzione è sulle dipendenze, ciò non toglie che certe dinamiche si presentino anche in altri quadri e situazioni diverse da quelle prese in esame. 


DSM V e CRAVING

La dipendenza è una malattia cronica -recidivante- del cervello (Leshner, 1997).
DSM IV abuso vs. dipendenze come se fossero due quadri distinti.

DSM V c’è un unico quadro lungo un continuum di gravità da lieve (2-3 sintomi) a moderato (da 4 a 5 sintomi) a grave (da 6 a più sintomi), valutazione di dipendenza che va fatta non solo attraverso colloquio clinico, ma anche con esami clinici che puntano al monitoraggio attraverso i prelievi, con l’esame delle urine… nonché gli indicatori delle condizioni fisiche come quelle relative all’intossicazione del fegato, con i quali si cercherà riscontri nel tempo.

Il concetto di craving -forte desiderio/attrazione irrefrenabile all’uso della sostanza, con perdita di controllo su tutti gli aspetti della propria vita- non era presente nel DSM IV, ma nella comunità scientifica invece si usava già da anni.  Parliamo di craving positivo quando l’attenzione è rivolta alla sostanza con aspettativa di gratificazione, di craving negativo quando l’attenzione alla sostanza è per evitare l’astinenza (Petrakis 1999). È un concetto di estrema importanza da considerare perché quando il craving, nella parabola della dipendenza, è alto e, quindi, l’attrazione è forte, qualunque intervento esterno per far luce sulle conseguenze negative della sostanza non attecchisce.

L’uso della sostanza o il comportamento di addiction hanno, nella loro drammaticità, degli aspetti positivi, un vantaggio immediato: funzionano.

C’è ancora tanto su cui riflettere e da definire, tutti gli studi sulle dipendenze sono ancora in itinere e lo dimostra anche il passaggio dal DSM IV e il DSM V in termini di quadri diagnostici e di ricerca sui correlati neurofisiologici.
In tutte le dipendenze è fondamentale la terapia di gruppo con gruppi omogenei e di grande aiuto sono i gruppi anonimi.

Nelle comunità non si parla spesso della malattia, invece in alcuni di centri diurni se ne parla allo scopo di fare informazione e favorire una scelta più consapevole.

Una grande quantità di tempo viene spesa -senza percezione consapevole- sulla sostanza:
. i tempi per reperirla
. i tempi per creare le condizioni e i rituali volti all’assunzione
. i tempi per riprendersi dall’assunzione stessa.
Questo va a compromettere la nutrizione, l’igiene personale e l’adempimento dei normali obblighi della vita quotidiana


COME MAI LA PERSONA CON DIPENDENZA HA RESISTENZE AD ACCEDERE AL SERVIZIO PUBBLICO?

Spesso il servizio pubblico viene evitato ed è ritenuto sconveniente, -a causa della disinformazione- in quanto:
si teme l’etichetta pubblica di tossicodipendente;
si ha paura di essere denunciati;
si ha timore di entrare in un circuito che gli toglie potere sulla propria vita, come se il servizio pubblico offerto possa prevalere rispetto a se stessi;
entrando nel servizio pubblico si esplicita il problema, questo impone a una considerevole assunzione di responsabilità sulla propria condizione, cosa che chi ha una dipendenza in genere evita: entrare dentro un servizio pubblico significa fare un’ammissione davanti a dei testimoni e questo rappresenta una perdita di controllo a tutti gli effetti;
ambivalenza che sembra non trovare, per chi ha una dipendenza, un punto di incontro; da un lato chi ha una tossicodipendenza indossa un abito che gli dà una visibilità, un controllo, un potere su di sé che crea riconoscibilità e appartenenza e, in contrapposizione a questo, si pone l’atto di esplicitare il problema in funzione della pulizia; quando prevale la voglia di consumo c’è un accento maggiore su quelli che sono i pro del consumo e sono meno visibili i pro della pulizia;
le ragazze madri, per esempio, temono gli vengano tolti i figli quando invece possono usufruire di supporto per trovare le misure legali per gestire la condizione e ottenere un sostegno economico, così come l’applicazione di misure sociali, comunali.
Quando il craving è ancora molto forte e in un certo senso ancora non si tocca il fondo, oppure quando il fondo è stato toccato e si è anche pronti ad ammettere il problema a una qualche livello, ma la voglia della sostanza e il desiderio di provare altri effetti generabili dalla stessa, resta prevalente, rispetto a tutto questo.


QUALI SONO I MOTIVI CHE PORTANO LA PERSONA CON DIPENDENZA AD AVVICINARSI AL SERVIZIO PUBBLICO?

Rivolgersi al Ser.T o Ser.D per la maggior parte di loro è un fallimento, quindi, ci si rivolgono quando:
sono spinti da familiari e amici;
perché, per motivi di altro genere, come lo spaccio, sanno che le Forze dell’ordine stanno arrivando a loro e, quindi, vogliono prendere del tempo;
non hanno più soldi per reperire la sostanza e, quindi, cercano la terapia sostitutiva: per esempio, il metadone che è il farmaco sostitutivo di eccellenza in caso di eroina, ma anche di altri farmaci per tamponare la situazione di disagio anche fisico di astinenza.
Prima che arrivino davvero a chiedere aiuto passano anni e specie con ragazzi della fascia di età che abbraccia i vent’anni, si parte dal presupposto che sarà molto difficile che inizieranno un percorso di recupero vero e proprio: la parabola della dipendenza ha un andamento la cui fase di sviluppo, in genere, dura molto più tempo, quindi è raro che oltre la terapia farmacologica sostitutiva, vogliano investire energie in altro;
quando si arriva a una cronicizzazione della malattia con relativa tolleranza -di conseguenza serve sempre una dose più alta, più frequentemente e la stessa fa sempre meno effetto- cosa che determina la disillusione sull’affidabilità della sostanza stessa: la dipendenza nasce da un problema di tipo relazionale , perciò, se da un lato si sviluppa l’idea che non ci si può fidare delle persone, dall’altro si impara a fidarsi della sostanza e nasce con essa una relazione vera e propria, perché essa, alle domande che la persona stessa cerca, dà sempre la stessa risposta. “Questo funziona e io funziono grazie a questo”: è affidabilissima la sostanza!!! L’alleanza con essa è paragonabile alla fase simbiotica con la mamma e perfino la supera, perché la mamma può anche disattendere delle aspettative o arrivare a essere perfino imprevedibile, la sostanza no. Ammettere il fallimento rispetto a questo, dopo tutto l’investimento di vita su di essa, mette avanti al grandissimo inganno che la sostanza ha generato: l’idealizzazione iniziale “consumo controllato” cade nel momento in cui si rende conto che non si controlla nulla: ne consegue una depressione profondissima per il sistema crollato e rabbia verso tutto il mondo. Tutto questo accade soprattutto con gli oppiacei, discorso più complesso con la cocaina. C’è una forte ambivalenza verso l’abbandono della sostanza e ciò comporta che, se da un lato chiedono aiuto, dall’altro attivano continui meccanismi di manipolazione e strategie di sopravvivenza all’ambivalenza stessa.

Siccome, quindi, si arriva al servizio pubblico prevalentemente sull’onda di una motivazione estrinseca, la difficoltà -che è pure l’aspetto fondamentale da gestire nella fase motivazionale volta all’invio al servizio pubblico- è quella di cercare di spostare il focus sugli aspetti positivi della pulizia, togliendo importanza a quelli del consumo.

Alcune persone hanno più paura della malattia che possono contrarre o hanno contratto -perché su essa non hanno controllo-, che dell’uso della sostanza stessa -perché su essa hanno l’illusione di controllo- quindi si può cercare di fare leva sulla malattia stessa.
Essendo una zona molto irrorata quella del naso, anche l’uso della cannula -e non solo l’uso di siringhe- può favorire la trasmissione di malattie e sono informazioni queste che vanno date.

NOTA sull’effetto della tolleranza da alcol: l’alcol sul corpo genera effetti particolari e in caso di tolleranza, andando avanti negli anni, si parla di tolleranza inversa: ne basta pochissimo per stare molto male e avere deliri.


ECCO PERCHÈ L’INVIO AL SER.T -o in strutture private con equipe competenti- È NECESSARIO E PREFERIBILE AL SETTING TRADIZIONALE

Al setting individuale tradizionale è più facile si rivolgano dei giocatori e chi ha dipendenza affettiva, anziché chi fa uso di eroina. Non sono rari coloro che fanno uso di cocaina.
Provo a concentrarmi sul caso in cui la dipendenza coinvolga l’assunzione di sostanze.
Seguire individualmente una persona con dipendenza da sostanze comporta dei rischi: una persona con tossicodipendenza necessita di un servizio a 360 gradi, che solo il servizio pubblico, che è anche gratuito, può garantire. A esso si affiancano, in termini di alternativa, servizi, sempre in equipe, che però sono a pagamento.
Ad esempio, nel privato non si può monitorare il reale consumo, perché mentono rispetto a ciò di cui realmente fanno uso e negano al mondo e a se stessi, in tutte le forme possibili, la rilevanza del problema; questo comporta che il professionista che non è inserito in un’equipe non ha le informazioni necessarie per procedere e ne consegue ulteriormente che, sotto assunzione, una terapia su chi non è lucido rischia di non essere affatto efficace: prima si toglie la sostanza, poi si lavora sul resto per ristabilire tutta una serie di equilibri.
In ogni caso, non è detto che la persona, dopo aver tolto la sostanza, scelga di lavorare su se stessa.

Di seguito mi soffermerò sui VANTAGGI OFFERTI DAL SERVIZIO PUBBLICO, alcuni dei quali si ritrovano in servizio specializzati privati.
– C’è comunicazione tra i vari compartimenti del Ser.D e questo viene comunicato sempre nel contratto terapeutico: per esempio, se lo psicologo sa che il consumo è nuovamente avvenuto, avverte sia il medico, sia l’infermeria.  Questo fa da contenimento, protezione, perché diviene quella famiglia in cui i membri comunicano, sono chiari, esplicitano le cose e non ci sono, invece, di contro, quei segreti, quei mascheramenti che invece chi ha una dipendenza ha vissuto nella famiglia di origine.

Non si può non tener conto, poi, che se una persona finisce in ospedale per overdose, la comunicazione al Sert.D, da parte del Pronto soccorso arriva, al servizio privato no. Non si può, invece, far affidamento sulla famiglia, che più probabilmente in questi casi minimizza o nasconde.

Il servizio pubblico offre una condizione favorevole al coinvolgimento delle famiglie sia per il trattamento, sia per monitorare cosa accade fuori.

– Il lavoro di equipe consente una visione del problema da più angolazioni e di lavorare in maniera integrata e coerente.

Spesso il messaggio che chi ha una dipendenza trasmette più o meno implicitamente, a livello di transfert, è:
Sono solo, sto malissimo, solo tu mi puoi aiutare, rischio di ammazzarmi.
Tu lo sai che posso morire, cosa fai per me?
Non c’è in genere reale paura della morte, non hanno neanche lucido il reale rischio di morte a cui vanno incontro, ma il richiamo a essa viene strumentalizzato per agganciare chi hanno di fronte, a scopo di manipolazione. Il controtransfert che rischia di attivare nello psicologo è: “Io ti salverò, sto qua!”, ma non esiste questa possibilità, neanche quando facciamo questo lavoro: la malattia è più forte dello psicologo!
La scelta del recupero, la scelta di cura è sempre del paziente… lo psicologo del Ser.D può solo accompagnare finché arrivi il momento giusto per proporre un salto verso l’alternativa e richiede spesso tempi lunghissimi.
La persona con dipendenza usa:
. Seduttività, riempiendo di lusinghe e sottolineando l’unicità della relazione e/o elogiando la bravura del terapeuta e questo, se non si tiene conto che sono delle trappole, può andare a solleticare la cosiddetta ombra, il potere del terapeuta.
. Manipolazione per controllare la relazione stessa: se la controllano stanno più tranquilli. Invece, regole, degli stop, confini netti, trasmettere il messaggio che non possono usare lo spazio come vogliono che sono estremamente funzionali. Il confine di base è il servizio pubblico stesso.
. Negazione della reale entità del problema.
. Paradosso, in quanto è una persona che in realtà non chiede aiuto in modo diretto, ma in modo ambivalente: gli serve il metadone, quindi viene, ma è davvero pronto ad affidarsi? Vuole davvero abbandonare la sostanza? Se sì, fino a che punto?
Appare evidente, anche attraverso queste caratteristiche, che la gestione della problematica in un setting privato non sia così fattibile come si creda, specie perché l’esperienza professionale necessaria in un ambito così complesso è possibile solo se c’è alle spalle un’esposizione esperienziale, oltre che formativa, specifica, con tutto un contesto professionale di supporto: non basta affatto un “mi sono formato nell’ambito delle dipendenze”.

Negli interventi con chi ha questo tipo di problema si procede per prove ed errori, perché non c’è mai una linearità.

Passiamo a un altro aspetto: coloro che hanno una dipendenza sono persone che hanno una sofferenza enorme e hanno un bisogno profondissimo di relazione eppure all’inizio mettono alla prova in tutti i modi, provocano la relazione, l’attaccano.
A seconda della fase della malattia si osserva che la relazione terapeutica viene usata come la sostanza: nella fase iniziale, data l’incapacità cronica a fidarsi di sé e dell’altro, l’individuo può provocare alti e bassi nella terapia, con oscillazioni che vanno dall’attacco, alla dipendenza. La sfida è centrale, la provocazione può raggiungere modalità estremamente esplicite perché rivolgono sullo psicologo e sulla relazione terapeutica stessa l’aggressività che provano verso loro stessi, rimettendo in gioco le modalità relazionali che hanno conosciuto, per vedere fino a che punto si può spingere e affidarsi: “fino a che punto reggi la mia rabbia e il mio dolore?
Ripropongono nella relazione terapeutica ciò che hanno subito e i vissuti controtransferali del terapeuta possono agganciarsi a tutto ciò: quindi, serve chiedersi quanto si possa contenere tutto questo. Se il terapeuta regge a tutti questi colpi, mollano la presa, si lasciano andare alla relazione, accettandola, e iniziano a nutrirsene. Non si può non tener contro che dietro l’attacco e la provocazione c’è comunque una richiesta. Questa fase può durare a lungo e visto che si devono sostenere con il paziente con dipendenza anche le frequenti ricadute, il fallimento della persona può agganciare il senso di fallimento del professionista e il rischio burnout è dietro l’angolo: il professionista nel servizio pubblico può contare su una rete di supporto più strutturata, rispetto al professionista che lavora nel proprio studio, perciò, a maggior ragione, l’invio al Ser.T/Ser.D. -o ad altra struttura gestita in equipe- è la scelta più auspicabile ed etica possibile, oltre a rappresentare un fattore protettivo per il professionista stesso.
Alcune cooperative che hanno in gestione il servizio pubblico per dipendenze, attivano per scelta un servizio di supervisione di equipe per garantirsi il supporto necessario a gestire al meglio le situazioni: purtroppo quello della supervisione non è un servizio scontato di cui gli operatori scelgono di usufruire; è qualcosa per cui devono attivarsi in modo autonomo.

Per etica professionale serve un confine deciso che porti la persona a realizzare di avere un problema serio, che non si può risolvere con la sola terapia psicologica: servono necessariamente controlli medici e vanno responsabilizzati anche nella gestione di eventuali ruoli che ricoprono (come nel caso delle giovani madri).
Il confine è espresso dal servizio di equipe stesso con tutti i suoi funzionamenti interni:
. regole chiare date in sede di contratto
. c’è un numero fisso e ci sono orari di servizio
. esami medici per monitorare il dosaggio del consumo
. discussione dei casi in equipe che permette una visione completa del paziente
. c’è un contatto quotidiano, che favorisce familiarità da ambo le parti, il che favorisce anche il monitoraggio osservativo
. assistenza legale, socio-lavorativa, familiare.

Soprassedere a tutti questi aspetti, procedendo superficialmente con la presa in carico nel privato, senza avere alle spalle un’equipe, significa colludere con la richiesta e con la dipendenza stessa. Improvvisare rende la presa in carico irresponsabile.

Al di là della presa in carico, che come abbiamo visto, è bene non prendere in considerazione nel setting privato, è auspicabile che qualunque psicologo abbia conoscenza del mondo della dipendenza per non sottovalutare il problema, così diffuso al giorno d’oggi, e gestire nel migliore dei modi eventuali situazioni gli si dovessero presentare, sia in termini di invio, che di accompagnamento al pubblico.

È importante sottolineare che una continuità così sistematica tra tutti gli aspetti sopra descritti con invio privilegiato ed esclusivo al servizio pubblico o in equipe privata è assolutamente auspicabile quando c’è di mezzo l’uso di sostanze. Eventuali collaborazioni tra setting privato e pubblico, lì dove necessario, andrebbero gestite adeguatamente con un continua comunicazione tra le parti per ogni caso preso in carico e solo da professionisti che hanno adeguata preparazione sul tema.
In caso, per esempio, di GAP puro, connaturato da condizioni che rendono la prognosi più favorevole,  la presa in carico del professionista privato -purché sia in collaborazione con il Ser.D- non è da demonizzare a priori, anche se occorre ugualmente un’ottima conoscenza ed esperienza della tematica.
Auspicapile è, in ogni caso, il contatto con i gruppi anonimi sul territorio e i gruppi per i familiari.

Ti lascio con uno stimolo di riflessione: che cos’è che ha funzionato, secondo te, nella tua vita, per non aver sviluppato un simile comportamento problematico?

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Hai bisogno di acquisire competenze per gestire un paziente con dipendenza?
Allora, ecco cosa troverai nel modulo e-learning sulle dipendenze:
Terapia della dipendenza – Stadi del cambiamento – Passaggio dall’uso alla dipendenza e farmaci sostitutivi – Sindrome di astinenza e gestione degli elementi cognitivi su di essa in seduta – La ricaduta e il potenziale trasformativo insito in essa – Vulnerabilità – Dipendenza e personalità – Adolescenza e il primo contatto – Uso di sostanze in gravidanza – Lettura psicodinamica – Lettura sistemico familiare – Legge del tutto e subito – Lavoro di gruppo con le dipendenze – Le trappole comunicative – Gambling – Hikikomori – I 5 passi da seguire per passare dalla non aderenza al comportamento desiderato – Come favorire l’ambivalenza in funzione del cambiamento – Gli atti terapeutici in ogni fase del ciclo del cambiamento – Colloquio motivazionale – Come lavorare sulla motivazione per agevolare l’invio. 


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Francesca Di Donato – Psicologa
Psicologia clinica, dinamica e della salute – percorsi individuali, di coppia e in gruppo: in presenza e online
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4 anni ago · · 0 comments

i Master in Italia. Francesca Di Donato

Secondo la normativa nazionale si definiscono Master i corsi post laurea organizzati da un’istituzione universitaria anche in collaborazione con enti esterni pubblici o privati.

Rispondono a specifici requisiti indicati dal MIUR 

Rilasciano i seguenti titoli accademici:
– Master di I livello in…
– Master di II livello in…
A seconda se il requisito minimo di accesso sia la laurea triennale (nel caso di I livello) o la magistrale (II livello).

Hanno durata almeno annuale e permettono il conseguimento di 60CFU (Crediti Formativi Universitari) pari a 1500 ore di impegno complessivo.

Per convenzione anche le realtà non universitarie hanno preso l’iniziativa di chiamare i propri corsi “Master” ma non sono tenute a seguire alcun regolamento statale.

Esistono Master non universitari riconosciuti dal MIUR? NO.

Come scritto più sopra il Master -per essere tale- deve essere attivato e organizzato da un ente universitario. 
Può collaborare con un’istituzione non universitaria, ma la gestione rimane in mano alla prima.

http://attiministeriali.miur.it/media/160201/all.a_regolamento_corsi_master.pdf?fbclid=IwAR08BKOY41bla8oTpGFXVL5QotANCFd4cPZPCmAWTB9JpUc5W7qCZo287mM

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scritto da Giusy Vilardo

leggi anche: https://scuoladipsicologia.com/2020/07/05/chiarimenti-nella-formazione-in-psicologia/

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4 anni ago · · 0 comments

Formazione in Psicologia: specialista vs. specializzato. Francesca Di Donato

“Specialistica” e “Specializzazione” non sono la stessa cosa:
– con “Specialistica” si intende la laurea conseguita con la formazione di due anni, successivamente alla triennale, legalmente non si chiama più in questo modo dal 2004: con il D.M. 270/04 il nome è diventato Laurea Magistrale.
– con “Specializzazione” si intende un percorso di studi post laurea magistrale della durata minima di 4 anni che, per gli psicologi, abilita all’esercizio dell’attività psicoterapeutica così come indicato dall’articolo 3 della Legge 56/89

In  Italia esistono due tipi di scuole di specializzazione:
– universitarie: accessibili SOLO agli iscritti all’Ordine degli psicologi.
Rilasciano il titolo di Specialista in Psicologia + “nome del corso”  (D.M. 24 luglio 2006 e D.M. 50/2019 in vigore entro ottobre 2020).
Sono abilitanti  all’esercizio  della psicoterapia, purché almeno  60 CFU  siano  dedicati  ad  attività professionalizzanti psicoterapeutiche espletate sotto la supervisione di qualificati psicoterapeuti
– non universitarie: accessibili agli iscritti all’ordine degli psicologi e/o dei medici.
Rilasciano il titolo di Specialista in psicoterapia +  “orientamento della scuola” (D.M. 11 dicembre 1998 n. 509).
Sono abilitanti all’esercizio dell’attività psicoterapeutica secondo l’articolo 3 della Legge 56/89

N.B. quanto a “Specialista” e “specializzato” neanche questi sono necessariamente la stessa cosa.
Il sostantivo “specializzato” ha due significati:
1) si riferisce a chi ha è dotato di particolare competenza e abilità in un determinato settore professionale o attività
2) circoscrive chi ha conseguito una specializzazione “psicologo specializzato” (vedasi la Treccani alla voce “specializzato”)
Il termine “Specialista” è un titolo accademico che si ottiene dopo aver terminato una scuola di specializzazione.

Rimanendo nell’ambito della formazione universitaria esistono anche i Master di I e II livello e
Quanto ai Dottorati, invece, l’ammissione avviene tramite concorso e ha la laurea magistrale come requisito essenziale; la durata è di almeno tre anni.
Rilasciano il titolo accademico di “Dottore di ricerca” corrispondente a “Philosophiae Doctor” (PhD) previsto nei Paesi anglossassoni.

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Giusy Vilardo
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leggi anche: https://scuoladipsicologia.com/2020/07/05/i-master-in-italia/

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