Noto un’ondata di polemiche a tutela delle neurodivergenze -diagnosticamente intese- contro alcune parole di Galimberti. Non ho ascoltato Galimberti, ma ho ascoltato le polemiche e su quelle ho qualcosa da ri-dire.
Il processo di attribuire etichette risponde all’umano bisogno di categorizzare la realtà, apparentemente per semplificarsela.
Ma con buona pace della capacità evolutiva di cui siamo dotati possiamo anche tentare di andare oltre ogni volta che è possibile.
Ormai è perfino in voga farsi ipotesi di diagnosi di neurodivergenza, così come noto toni compiaciuti nelle parole di alcuni quando possono dire al mondo social di averne ricevuta una.
Ognuno dovrebbe provare a contattare a cosa risponde la personale necessità di avere una diagnosi, perché scommetto sullo stupore quando si scoprirà cosa trascina davvero con sé, al di là delle motivazioni di superficie a cui si ha di solito accesso.
Vi soddisfa sul serio la narrazione dominante per cui si ritiene davvero esista un cervello che funziona in modo tipico e che a esso si contrapponga quello che viene definito neurodivergente?
Francamente ritengo siamo tutti fottutamente neurodivergenti e divergiamo gli uni dagli altri senza sconti. Anche perché tutto è interconnesso a livello di sottosistemi annessi al funzionamento umano e ciascuno ha una risultante specifica e soggettiva a queste connessioni. Così come ognuno ha una risposta soggettiva agli stimoli, interni ed esterni, incluso a quelli legati all’apprendimento.
Ogni singolo essere umano presenta un sistema di funzionamento unico e ciascuno sviluppa continuamente nel corso della vita strategie, compensazioni e adattamenti continui, con modalità non sovrapponibili al alcuno.
Vi siete mai chiesti perche questa necessità di dare un nome a questi tipo di funzionamento è così tanto alimentato entro i contesti formativi?
Ve lo dico io.
Perché sono sistemi orientati al risultato, a quel voto che ingenuamente ritenete davvero parli della vostra preparazione e del vostro valore accademico al punto da sbandierarlo ai quattro venti ogni volta che risponde all’immagine che ci tenete a rimandare all’esterno o da vergognarvene se non concilia con essa.
Perché sono sistemi formativi rigidi, preconfezionati e con le priorità sballate.
Perché molti sono insegnati e pochi sono maestri.
Perché la maggior parte degli insegnanti, ciascuno nella propria neuro divergenza, si aspetta che siano gli allievi a dover aderire e adattarsi allo stile di insegnamento di chi lo esercita e non il contrario.
Perché è più facile pensare che sia l’altro ad avere un problema, piuttosto che mettere in discussione le proprie abilità o il proprio schema di insegnamento, quando qualcuno resta fuori dai giochi.
Perché alla metà dei genitori interessa che il figlio esca con un buon voto, se non ottimo; e all’altra metà avendo perso le speranze sui voti, spera che almeno finisca il percorso.
Quindi non importa se sei infelice o se non sai muovere i passi nel mondo, basta che prendi bei voti o che, alle brutte, ti fai promuovere.
Le priorità sono priorità, d’altronde!
Perché i figli si fanno dapprima agganciare dalle aspettative di genitori e insegnanti, per adesione o contrapposizione, e poi -pure quanto potrebbero iniziare a svincolarsi- ci finiscono con tutte le scarpe a credere che la priorità della vita sono studio e voti e che il loro valore dipende da questo.
Per molti la vita da allievo diventa perfino un rifugio per evitare di osare davvero.
E dopo aver aderito a tutto questo magari diventano loro stessi insegnati e/o genitori e il ciclo si ripete a oltranza.
Tutto questo trasforma l’apprendimento in un atto passivo e non partecipativo: un terreno più che fertile per determinare chi diverge e chi è tipico.
Tranne poi scoprire, appunto, che divergiamo tutti.
Così, tra le mura scolastiche molti si raccontano la neurodivergenza come uno svantaggio, talvolta anche con una punta di vittimismo, perché, attraverso tutte le sue derive, incide sulla prestazione e sull’immagine di sé in funzione della prestazione.
Sui social si trasforma in un motivo di vanto, perché si cede al fascino di appartenere a una minoranza, come tentativo disperato di emergere dal mucchio. Insomma, il diverso che fa figo.
Rappresentarsi la realtà, categorizzandola, è più facile che coglierne la complessità e ad aderire ad essa, per questo vi fanno credere -e ci caschi- che quella roba sia necessaria.
A scuola per cavartela e nella vita per emergere.
E la naturale unicità di ciascuno, intanto, ce la perdiamo.
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Francesca Di Donato psicologa